Sii la versione migliore di te stesso

“Sii la versione migliore di te stesso” è quello che mi hanno sempre ripetuto, e io ci credevo. Credevo che, smettendo di essere negativo e iniziando a inseguire i miei sogni, sarei arrivato alla felicità, senza però davvero comprendere cosa fosse.
Ho speso migliaia di euro in corsi, seminari, ritiri con vari guru della mente, della finanza, della nutrizione. Non che mi sia sempre sentito un perdente, anzi, sono stato un bambino relativamente sereno nella provincia in cui sono cresciuto. Figlio di un insegnante delle medie e di un’impiegata del comune, i miei non mi hanno mai fatto mancare niente. Ho sempre avuto buoni rapporti con tutti, ma sapevo che avrei dovuto migliorarmi: avvertivo quella spinta che mi portava a farlo.
È stato quando dal mio paese ho fatto il salto nella *città da bere1 che mi sono sentito un perdente. Questa sensazione ho iniziato a provarla all’università. Non che i miei voti fossero brutti, ma neanche strepitosi, non brillavo per aspetto ed eloquio, non ero adeguato ai modi e al vestire. Non avevo quell’indole rampante necessaria per sfondare, e continuamente mi veniva sottolineato.
Io, che da ragazzo amavo correre all’aperto nei miei campi, in città avevo un po’ tralasciato l’attività fisica, e francamente di avere un fisico prestante prima non me ne fregava un cazzo. Eppure, anche in questo ho dovuto cercare di mettercela tutta: ho iniziato a frequentare palestre, non posti qualsiasi, dovevo frequentare i centri più “in”, perché il business è un obiettivo a cui devi dedicare ogni momento del tuo tempo, anche quello teoricamente libero. Il successo lo devi rincorrere, altro non conta.
Con immensi sacrifici miei e dei miei genitori, sono riuscito a laurearmi e ad avere un aspetto più vicino a quello di un giovane uomo che dava l’impressione di essere sicuro. L’amore mi pareva di averlo trovato: una ragazza come me, che voleva un posto al sole in quella città piena di luci e nebbie.
Una volta laureato, ho iniziato a fare svariati lavori, ma la carriera che desideravo si posizionava sempre più in alto rispetto ai punti che via via guadagnavo. Stage, conferenze, programmi speciali, amici speciali che fra uno spritz e l’altro ti raccontavano dei loro successi, mentre io mi sentivo sempre più al palo. Amici che mi consigliavano di seguire questo o quell’altro leader, perché con gli insegnamenti giusti anche io avrei, come loro, brillato.
E ci ho provato, Cristo se ci ho provato a brillare, e qualche volta mi pareva di esserci anche riuscito. Ai miei, dei miei turbamenti e delle mie ansie, non raccontavo niente: tanto erano fieri di me, che stavo emergendo in quella città così importante. “Sai, Marco – diceva mio padre agli amici – si sta facendo strada, presto avrà una promozione, siamo tanto orgogliosi di lui.” Come facevo a dirgli che dentro stavo morendo. Che ci avevo provato a essere la versione migliore di me stesso, ma che spesso inciampavo, e che l’inadeguatezza, come quella fitta grigia nebbia, stava sempre di più facendosi largo dentro di me.
Avevo provato anche a parlarne alla mia ragazza, ma lei era già su un altro livello. Le avevo chiesto di sposarla e non pensava ad altro che a quel fatidico giorno, quasi come fosse un’ossessione. Perché, cavolo, avevamo quasi trent’anni, e non potevamo comportarci diversamente secondo gli standard imposti in quella vita che avevamo scelto. La migliore versione di me stesso si nutriva di psicofarmaci, perché non avevo il coraggio di mollarla, di mollare il lavoro e di tornare indietro per accontentarmi di una qualsiasi occupazione che mi avesse lasciato il tempo per tornare a correre nei miei campi e per rilassarmi anche solo guardando il cielo.
Ma dovevo essere più performante, me lo dicevano tutti, gli amici e soprattutto al lavoro. Potevo essere pronto per la prossima scelta del tagliatore di teste: avevo accumulato qualche piccolo errore che era stato notato, e se ne avessi fatto un altro mi avrebbero potuto licenziare. E a due passi dal matrimonio, come potevo permettermi di trovarmi senza lavoro?
Più ero insicuro, più spendevo in strategie motivazionali, più corsi seguivo e più mi perdevo. E a poco o a niente mi servivano tutte le strategie con cui tentavo di anestetizzare il mio dolore.
Successe tutto in maniera repentina. Dovevo presiedere a una riunione, mostrare in maniera brillante le nuove strategie di vendita ai nuovi, papabili, importanti clienti, ma la nebbia che mi sembrava di aver ricacciato nell’angolo più nascosto di me prese il sopravvento, e me ne uscii con un eloquio claudicante e confuso.
Inutile dire che fu quello il motivo che diede al mio capo l’occasione di farmi licenziare, con sprezzante soddisfazione di alcuni colleghi che da tempo cercavano di farmi le scarpe.
D’altra parte, non avevo trovato e non riuscivo a trovare la versione migliore di me stesso, e quindi dovevo lasciare il posto a chi invece c’era riuscito. Lasciare il posto non solo in quell’ufficio, ma anche in questo mondo, che ci chiede quanto io non avevo saputo dare.

  • *termine riferito a Milano dovuto ad uno spot che recitava: “Milano, città da bere”
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