Il bullismo è una delle tante forme della violenza,  assume spesso aspetti che possiamo definire criminali. Proprio in questi giorni siamo venuti a conoscenza del caso di giovanissimi bulli che a Vigevano hanno terrorizzato diversi loro coetanei e che si sono accaniti in special modo contro un ragazzo definito “fragile” infliggendogli una violenza inaudita.
Il comportamento da bullo non è solo legato alla giovane età dei carnefici e/o delle loro vittime. Assistiamo continuamente a casi di bullismo anche da parte di adulti, la rete fa da specchio ad una società spesso infelice e ricca di rancore.
Come primo articolo in materia lascio la parola a Vasco Zanelli, un uomo che posso definire amico dato il suo comportamento sempre leale e signorile, una persona generosa che nel passato è stato un bullo. La sua è una testimonianza preziosissima, di cui sono grata, che v’invito a leggere.
“Sono stato un bullo. Lo sono stato per un periodo troppo lungo, all’incirca corrispondente con la frequentazione del quarto anno dell’ITIS di Città di Castello. Questo non è un particolare insignificante, perché la mia attività di minaccia sociale si svolgeva esclusivamente all’interno dell’autobus che dal mio paesino dell’appennino tosco-emiliano ci portava fino a scuola. Il tragitto durava quasi un’ora, ed in quell’ora noi eravamo i padroni e i capi. Noi. I nonni. Ovviamente questa pessima tradizione non l’avevamo inventata noi, ma ci era stata insegnata sulla nostra pelle e noi l’abbiamo a nostra volta tramandata ai nostri “primini”. Ricordo ancora l’angoscia delle mattine da primini, quando salivamo sui primi posti dell’autobus (i nonni rigorosamente sul fondo), e attendevamo l’immancabile chiamata: si poteva essere costretti a cantare (io ed altri due ragazzi, nel periodo di Sanremo, dovemmo emulare le gesta di Tozzi, Morandi e Ruggeri, che cantavano “Si può dare di più”. Io ero Ruggeri). Poteva essere la pressa (il primino si sedeva di lato, nell’ultima fila di posti, e i nonni lo schiacciavano tutti insieme contro il vetro: una volta, per la pressione, il vetro del pullman si staccò e cadde di fuori. Per fortuna eravamo fermi a Sansepolcro). Potevano essere tanti altri giochini scemi che servivano solo ad umiliare il ragazzo di fronte alla platea dei ragazzi di quarta e quinta, ma anche davanti a tutti gli altri. Di solito, già dalla seconda superiore si era praticamente esentati. In quinta si diventava nonni. I più cattivi, come me, lo erano già in quarta. Io non ero un ragazzo con particolari problemi: i miei genitori erano presenti, saldi, severi quando serviva. Leggevo sempre, in maniera quasi disperata. Stephen King, Svevo, Joyce, Pratolini, ad esempio, e, ovviamente, Baudelaire. Sono andato abbastanza bene a scuola fino alla quarta superiore, appunto. In quarta, guarda caso, il tracollo. Ho cominciato a saltare i giorni di scuola, e a tormentare quei poveri sciagurati che dovevano frequentare la prima superiore di quell’anno. Da subito sono diventato il più temuto dei nonni. Inventavo nuove torture, come la statua della libertà, che consisteva nel dare fuoco alla mano del primino con la benzina dello Zippo (so che sembra raccapricciante, ma non è dolorosa, se non si fa bruciare troppo), o costringevo i ragazzi a tenere in mano una lattina lacerata, poi gli stringevo le mani in modo da ferirli con le punte. A volte, quando tornavano dalla piscina, i ragazzi venivano costretti a vestirsi con costume, cuffia, accappatoio e ciabatte, ed a uscire dal pullman e farsi un giretto nel piazzale. Tutto per umiliarli, ovviamente. Chi si dimostrava arrendevole veniva lasciato in pace, dopo poco, ma chi si ribellava veniva tartassato. Uno dei punti più importanti di tutta questa storia è “cosa provavo io? Cosa mi spingeva?” Odio. Odio per tutto e tutti, me compreso. Anzi, per me più che per chiunque altro. Avrei spaccato tutto. Volevo essere temuto e odiato. Una volta una ragazzina tentò di mettere una cassetta di Marco Masini (mi sembra di ricordare). Io la tolsi e la buttai fuori dal pullman, mentre lei piangeva. La musica la sceglievo io, e gli autisti non si opponevano. Sentivo una rabbia bruciante, una cattiveria immotivata. Ma perché? Non ero particolarmente brutto, non ero stupido, leggevo e mi informavo. Non sono mai stato razzista (odiavo tutti nello stesso modo) e non avevo nessuna voglia di rivalsa sulla società. A scuola ero considerato un allievo che poteva trascinare la classe (ero rappresentante di classe, queste parole le ho sentite con le mie orecchie). Semplicemente, ero incazzato con tutti. Vi odiavo tutti. Quando le voci sono arrivate ai miei genitori, sono stato pesantemente ripreso. Poi punito, quando le cose non sono migliorate. In questo periodo, uscirono le pagelle del primo quadrimestre. Un disastro. I miei cercarono di responsabilizzarmi: potevo farcela e recuperare tutte le insufficienze, a modo mio. Contemporaneamente cercarono di capire se la mia rabbia stesse ancora mietendo vittime. Non era facile capirlo, dato che nessuno aveva il coraggio di opporsi. Mi piace pensare che il fatto di essere messo con le spalle al muro mi abbia spinto a risalire. Non so se è vero. Magari, non avevo più interesse nell’essere il ragazzo più odiato del mondo. Fatto sta che mi rimisi a studiare e, contemporaneamente, piano piano, diventai sempre più disinteressato a bullizzare quei poveretti. Quando finì l’anno venni promosso, senza nemmeno una insufficienza, ed ormai ero uno dei meno attivi, sul pullman. Ascoltavo musica, studiavo e leggevo. Durante l’estate conobbi una ragazza che mise definitivamente fine ad ogni mia tentazione manesca. Grazie alla sua tranquilla tenacia, almeno in quinta non feci nulla di cui oggi mi debba vergognare. Quell’anno scoppiò il caso bullismo, con le scuole che ricevettero delle lamentele per degli episodi veramente pesanti che si erano verificati, ma io ormai ne ero fuori, per mia immeritata fortuna.”