II

Un ragazzo con le gambe che sembravano sospese dentro dei pantaloni sdruciti dalle tasche sempre vuote, questo ero io. Malmesso, viso scarno e butterato, non potevo di certo reggere il confronto con la bellezza sana dei miei coetanei che correvano dietro al pallone prima e alle fanciulle poi. Sfottuto dai ragazzi del quartiere perché studiavo alla “scuola dei ricchi”, sfottuto dai compagni del liceo perché venivo da un quartiere povero. Mi ero sempre detto: “Ve la farò vedere io!” . Il fuoco acceso dal lampo del rancore fu il motore che mi consentì uno straordinario successo negli studi, potevo diventare chiunque. Avrei potuto mettere a servizio la mia superiore intelligenza per la medicina, per aiutare gli altri, ma decisi invece di utilizzarla affinché gli altri mi temessero. Non ho amato che il potere, non ho lottato che per quello. Il resto, come il rispetto e le belle donne, sarebbe stato la naturale conseguenza del raggiungimento del mio obbiettivo. Il mio primo successo a 18 anni: il figlio del carabiniere al liceo dei “siori” alla maturità fu il primo della classe. Passavo le notti e i giorni sui libri e presto cominciai a lavorare, la mia carriera cominciò a decollare velocemente, da impiegato a dirigente in una manciata di anni, una corsa frenetica la mia che giunse fino all’apice che mi vide amministratore delegato. Avrei potuto far licenziare quei miei coetanei che in passato mi avevano preso in giro, potevo decidere delle vite altrui solo per il gusto di farlo e questa soddisfazione non me la feci mai mancare. Non avevo bisogno di abiti eleganti per essere riverito, bastava il mio nome per gelare ogni benché minima intenzione. Mi sposai con una bella donna e non perché l’amassi, ma solo per farmi invidiare. Ho avuto amanti, auto di lusso, più denaro di quanto ne riuscissi a spendere, figli insolenti e un sepolcro in marmo che imponente troneggia qua sulla collina adornato di fregi preziosi, mancante di fiori freschi e di lacrime sincere.