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Che poi io contavo e la gente lo sapeva che contavo, camminavo e contavo, loro mi sentivano e a volte ridevano. Ma io contavo e camminavo perché il fisico era importante tenerlo in allenamento e la testa aveva bisogno di spazi all’aperto per elaborare. I numeri mi avevano sempre affascinato e nelle cose quei numeri mi divertivo a ritrovare: nelle ombre dei giorni, nel vento che piegava le piante. Riuscivo ad elaborare la velocità dell’aereo che mi passava sopra la testa, la sapevo con estrema precisione e non perché l’avessi letta da qualche parte ma perché era bellissimo il computo, arrivare alla meta, alla soluzione finale. La gente non pensa e non pensava mai niente di utile, mi guardava male ma solo perché la mia concentrazione era distante dalla loro ordinarietà.
Quante parole servono per chiedere del pane? Si sprecano sempre in vista dell’essenziale e io non avevo tempo perché ogni giorno c’era una luce che circolava e ricadeva ad un ora precisa e volevo non farmi sorprendere dal tramonto, io volevo scorgerlo con il giusto anticipo per poterne godere appieno.
Non capii mai lo spreco del tempo dell’uomo comune, la corsa infinita, nutrita dal rancore, per arrivare a dire “io” disprezzando gli altri e la vita. C’erano tanti numeri nelle musiche di Bach e di Mozart, era bello ritrovarli mentre le gambe mi portavano ovunque. Che importanza avevano i vestiti, i modi formali quando l’armonia della natura è frutto di processi delicatissimi tutti da calcolare?
Qui sulla collina dormo mal volentieri eppure c’è sempre luce nei miei pensieri.