Un giorno tutto questo sarà tuo

E tu ancora sogni che possa diventare migliore, fai quasi tenerezza. Quasi.

Siamo partiti da lontano per farti crescere libero di volare, per permetterti di avere un lavoro, costruirti un futuro. Vedi, figliolo, io e tuo padre abbiamo lasciato i nostri villaggi, salutati dalle nostre madri in lacrime, e non le abbiamo più riviste. Abbiamo abbandonato ciò che conoscevamo: la difficoltà di mettere insieme un pasto decente, il peso di un lavoro schiavizzante, la violenza delle bande armate, l’impossibilità di trovare acqua non solo per lavarci, ma anche l’amore dei nostri cari.
Dal nostro angolo dimenticato da questo pianeta, vedevamo uomini e donne vestiti bene, persone che mangiavano in ristoranti e viaggiavano senza temere di essere fermate. Vedevamo famiglie che mandavano i loro figli a scuola, figli che da adulti conquistavano il proprio posto nel mondo. Perché non potevamo desiderare tutto questo anche noi? Abbiamo raccolto tutto quello che avevamo, ci siamo indebitati per partire. Così abbiamo affrontato un viaggio durissimo: qualche giorno dopo la partenza chi avrebbe dovuto guidarci oltre il deserto ci ha abbandonati in mezzo al niente. Il cammino, in un luogo segnato da un orizzonte che muta in continuazione e il sole che, come un cecchino, è sempre lì fisso sulle nostre teste, si è trasformato presto in un inferno quando ha iniziato a scarseggiare l’acqua. Abbiamo visto compagni di viaggio morire e poi sparire inghiottiti dalla sabbia, e per ogni passo ci chiedevamo se saremmo stati noi i prossimi.
Quando finalmente eravamo arrivati a una grande città, credevamo che il mare ci avrebbe portato alla nuova vita. E invece ci hanno presi, rinchiusi, separati da tuo padre in celle anguste, dove le urla e la violenza ci soffocavano. Eravamo disperati e ci siamo aggrappati alla speranza per sopravvivere. Quando siamo riusciti a imbarcarci in una bagnarola, quella che “loro” chiamavano imbarcazione sicura, un altro inferno ci aspettava: in mezzo a tutto quel mare, l’ossessione era di nuovo la sete. Giorno dopo giorno, lasciavamo scivolare in acqua i corpi di chi non ce l’aveva fatta. Ero così stanca che, quando siamo arrivati, pensavo fosse solo un sogno, eravamo fra i pochissimi sopravvissuti. Realizzai solo più tardi che ci avevano separati ancora una volta da tuo padre. Avevamo resistito a tutto, al deserto, alla prigione, eppure qui, nel paese libero, ci avevano divisi.
Poi, quasi per miracolo, siamo riusciti a ritrovarci. Insieme abbiamo vissuto mille difficoltà: cercare lavoro, trovare un alloggio, affrontare il razzismo. Non ti abbiamo mai potuto proteggere del tutto, ma tu hai imparato a crescere anche tra le spine della discriminazione. Ora che sei più grande, vuoi sapere delle tue origini, di quella terra che a piedi nudi abbiamo calpestato quando eravamo piccoli come te. Ci tornerai, un giorno, e conoscerai i tuoi cugini, i racconti degli antenati.
Ricorda, figlio mio: nonostante tutto ciò che abbiamo vissuto, la nostra dignità è intoccabile. Questa terra è anche tua: i mari, le montagne, l’aria che respiri appartengono anche a te. Il razzismo potrà ferire, ma non ci spezzerà. Il mondo è nostro, come lo sono il cielo e le stelle. Chi toglie agli altri non saprà mai quanto è prezioso godere della propria libertà e camminare senza catene nel cuore. 

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