Un fiore sgraziato, così si sentiva.
Le sue origini indios le avevano donato un corpo basso, compatto che sembrava forgiato in un unico blocco. E per quanto stesse attenta a ciò che mangiava, nulla sembrava scalfire quella fisicità ostinata, non conforme.
E cosa poteva fare una donna come lei, in qualsiasi parte del mondo, se non la serva?
Si era sposata presto, con il primo uomo che le aveva promesso di portarla via da quel villaggio dimenticato in cui era cresciuta, offrendole il sogno abbozzato di una vita migliore.
Rimase incinta quasi subito, e si ritrovò sola a occuparsi di tutto, della casa, del figlio e anche di un marito ubriacone che le urlava addosso: “Ringrazia che ti ho sposata. Nessuno si sarebbe mai preso un bidone brutto come te!”
E lei, Rosa, ci credeva di essere un bidone. Si vestiva perché si doveva vestire. Camminava come se volesse sparire. Parlava poco, solo lo stretto indispensabile. Chinava spesso la testa, ma lavorava duro. Su questo, nessuno poteva dirle nulla: era una maga delle pulizie, e le signore del lato chiaro della cittadina se la contendevano.
Avrebbe anche potuto cavarsela, se non fosse che il marito si prendeva ogni centesimo per spenderlo in alcol e prostitute nei locali del lato oscuro.
Aveva pensato più volte di andarsene con il suo bimbo. Ma quelli erano tempi difficili per una madre bianca single. Per una donna indioamericana, impossibili. Sarebbe stata ripudiata dalla famiglia, spinta ai margini della società.
Teneva duro per il figlio. Per lui inventava mondi e avventure. Nelle loro storie fantastiche affrontavano intemperie e nemici, ma ne uscivano sempre vincitori.
Cercava di non fargli mancare nulla. Se non poteva comprargli un gioco, glielo costruiva lei. E lui era un bambino felice, finché stavano insieme. Ma alla presenza del padre, s’incupiva. Aveva già imparato a riconoscere l’inquietudine e la puzza di alcol.
Rosa resisteva, giorno dopo giorno. Si diceva: “Avanti ancora un po’. Un giorno lui sarà grande. Indipendente. E io avrò finito il mio lavoro.”
Quando arrivò il tempo della scuola, Rosa lo accompagnava e lo riprendeva sempre a testa bassa, pronunciando a malapena un buongiorno. Il figlio cresceva bene, curioso e intelligente, e questo non passò inosservato a Dylan, l’insegnante di storia e geografia.
Con lui i colloqui non erano mai brevi. Dylan faceva domande. Cercava il suo sguardo. La metteva a suo agio. La faceva sentire bella.
Avete presente quella sensazione che si ha quando si è in cima a una montagna? Le gambe tremano, il vuoto ti sfida, ma il mondo ti appartiene. Così si sentiva Rosa con Dylan: fragile e potente allo stesso tempo.
Era il suo Aymara. Una vetta mai osata sognare.
E sì, divennero amanti.
Grazie a lui, Rosa imparò a vedere il suo corpo per quello che era: forte, resistente, bellissimo. Con Dylan scoprì la sensualità, la gioia, e una parte di sé che nemmeno sapeva esistesse.
Sapeva di non potersi innamorare. Lui aveva già avuto altre donne, e ne avrebbe avute ancora. Ma in quei brevi, intensi incontri, si sentiva viva.
E parlavano. Dylan sapeva. E le diceva:
“Un giorno finirà. Sarai libera. Avrai una vita nuova.”
E lei cominciò a crederci. A immaginare un futuro non più scandito dalla rassegnazione, ma dalla possibilità.
Quanto ci sarebbe voluto?
“Non molto.”
Ma Rosa sapeva che anni di attesa, anche pochi, potevano diventare un’eternità.
Poi un giorno accadde.
Il marito stava tornando da uno dei suoi soliti giri nel lato oscuro, quando un uomo – forse Dylan, ma nessuno lo vide bene – lo invitò a bere qualcosa. Si fermarono vicino alla strada. Forse parlarono. Forse no.
Il tir sbucò all’improvviso. L’impatto fu violento.
Fu detto che era stato un incidente.
Rosa rimase vedova. Suo figlio, orfano di padre.

Lascia un commento