Can you tell me where my country lies?

Di nuovo a piedi in questa notte di terra bagnata.
Sono solo le nove, la nebbia sta avvolgendo tutto intorno a me. Riuscirò a tornare a casa dai miei bambini prima che crollino davanti alla televisione?
Mi avevano detto che qua avrei trovato fortuna, che avremmo potuto vivere tranquillamente del lavoro, che i miei figli non sarebbero finiti a spacciare o a prostituirsi, come molti ragazzi del mio paese.
Dovrei essere grata perché lavoro, anche se il tempo della fatica prende gran parte del giorno e della sera. Per fortuna Manuel, Carmen e Victor sono in gamba. Hanno imparato a cucinare da soli, fanno i compiti, mi aiutano a tirare avanti, cercano di non farmi pesare la mia assenza.
Dio, come sono stanca. Ma posso contare sui loro abbracci, sulle loro piccole conquiste, sul loro enorme amore.
Il bus era appena passato, dovevo servire l’ultimo cliente e il capo non ha voluto sentire ragioni. “Sono fortunata ad avere un cazzo di lavoro come questo”, mi ha detto.
Sì, uno dei tre lavori del cazzo che faccio per mandare avanti la baracca, una baracca umida, ma che almeno ha un tetto. Sono fortunata ad essere entrata nella grande nazione, the American dream che tutto ingloba e che tutto risputa.
Manca ancora un po’. Le poche auto che passano da qua schizzano fango sui miei vestiti e sono fortunata se una di queste non mi travolge.
Maledetto tempo, maledetta acqua. Essere nata al caldo e vivere qua, dove nebbia e pioggia segnano gran parte delle giornate, è una fortuna eppure la vivo come una maledizione.
Sono ingrata e dovrei vergognarmi, soprattutto al cospetto di Dio, che mi ha dato la vita, tre meravigliose creature, una, seppur dura, speranza per un futuro migliore.
“Signora” – si ferma un camionista – “vuole un passaggio?”
E io dico di no, che non ne ho bisogno, che ormai sono praticamente a casa, anche se manca un lungo, interminabile chilometro alla meta.
Chissà se Manuel si sarà lavato i denti, fa sempre storie per questo. E chissà se a Carmen è venuto il ciclo … Non c’erano più assorbenti in casa e ho fatto in tempo a prenderne un pacco prima di entrare in servizio.
Domani sveglia, apparecchio la tavola per la colazione e via verso gli uffici da pulire. Uffici abitati da persone che mai conoscerò, persone che mai conosceranno chi gli svuota i cestini, chi passa lo spray profumato sulle loro scrivanie. Poi la mensa, tante facce di studenti da servire, tanto chiasso di voci da subire, e poi la tavola calda, che stasera, con questo umido, calda proprio non lo era.
Eppure mi ripeto e mi ripeto che sono fortunata. Eppure continuo a sognare di tornare a casa mia, nel mio paese, libero dalla corruzione, dalla criminalità, dalla povertà.
Mercedes non ha retto. Mi hanno detto che ha preferito rinunciare e tornare da suo marito il quale non era riuscito a passare il confine. Ma io so che è dentro in qualche prigione, perché irregolare.
Gli irregolari portano tanti soldi al sogno americano, ma guai se si fanno beccare. Guai per loro, ovviamente. Per i sostenitori del governo sono una minaccia in meno. Una minaccia fatta di straccioni che vorrebbero solo un po’ di normale tranquillità.
Sono fortunata e non dovrei avere pensieri così cupi. I ragazzi stanno bene e anche io sono in salute. E adesso manca davvero poco al mio arrivo.
Sono fortunata, anche se vedo una pattuglia fuori da casa mia. Sarà un giro di controllo? Sì, dev’essere così.
Sono fortunata, perché i poliziotti che si avvicinano a me non sono aggressivi. Mi chiedono del visto, mi chiedono del lavoro, mi chiedono dei figli.
“Perché restano tutto il giorno da soli? Chi bada a loro?”
Inutile che gli spieghi quanto siano in gamba i miei ragazzi, che sono ben educati e che, nonostante tutto, vanno bene a scuola e riescono a cavarsela in mia assenza.
Inutile che parli, adesso che così calmi non mi sembrano e che stanno portando via i miei bambini, che, per fortuna loro – mi dicono- troveranno chi riuscirà a dargli una vita migliore.
Separati da me.
Separati gli uni dagli altri.

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