Vorrei rivedere le stesse finestre, gli stessi fiumi, le stesse campagne. Vorrei ancora stupirmi quando il mare appare all’improvviso, dopo le colline, dopo le fabbriche.
Per questo Maria preferiva viaggiare in treno: per le sorprese del paesaggio che scorrevano davanti ai suoi occhi, quadri sempre uguali e sempre diversi, incorniciati dal finestrino. Avrebbe potuto scegliere linee veloci; poteva permetterselo, viaggiare in prima classe, comodamente seduta, con snack e bevande offerti all’occorrenza, ma a quella velocità eccessiva preferiva la lentezza tranquilla dei treni regionali. C’era qualcosa di rassicurante in quel procedere cadenzato, un tempo sospeso tra la partenza e l’arrivo, che le permetteva di osservare senza fretta. Guardava, stazione dopo stazione, quanto tutto fosse rimasto uguale. E quanto fosse cambiato. Una donna anziana saliva con la borsa della spesa, un ragazzo con le cuffie si sedeva senza togliersi lo zaino. Un bambino premeva il naso contro il vetro, tracciando linee invisibili nel riflesso del cielo. Maria osservava senza una meta precisa. Viaggiare non era solo arrivare, ma lasciarsi attraversare dal tempo e dai luoghi, alleggerendosi di ciò che era superfluo. Forse, pensò, il segreto della leggerezza stava proprio in quel lento scorrere. E di quella leggerezza Maria sentiva un assurdo bisogno. Pur amando il tempo che scorreva fuori dal finestrino, odiava vederlo scritto sul proprio viso, nei solchi ineluttabili dell’età. Restava attaccata al vetro come una ventosa, aggrappandosi ai ricordi, per poi lasciarsi andare all’osservazione analitica dei passeggeri che si susseguivano, tappa dopo tappa.
Su quei treni aveva viaggiato fin da bambina, quando i suoi genitori, originari del sud, la portavano al paese. Viaggi infiniti che allora non amava, ma che ora avrebbe voluto rivivere. Se avesse potuto esprimere un solo desiderio, sarebbe tornata indietro, su quelle carrozze piene di famiglie chiassose, dove si tiravano fuori pane, formaggio e salsicce per rifocillarsi. Dove l’odore del caffè nei thermos, offerto generosamente ai vicini di sedile, si mescolava al sentore di nafta. Le stazioni, le coincidenze da aspettare per salire su treni sempre più vecchi, con sedili di legno scomodi, che da piccola la facevano fantasticare sui viaggi degli antenati e sui personaggi dei film in bianco e nero. Allora non era sola. Qualcuno si prendeva cura di lei. E, alla fine di quelle lunghe ore di viaggio, c’era sempre una famiglia da ritrovare. Ora, immersa nei ricordi, cercava di far riaffiorare nella mente i profumi di un tempo passato. Il profumo di verbena di sua madre.
Il dopobarba misto a sudore di suo padre. La fragranza del bucato appena lavato, il sapone di Marsiglia che impregnava i vestiti nelle valigie. Fra i protagonisti dei suoi viaggi, sceglieva spesso le famiglie, si rivedeva in loro anche quando avevano origini molto diverse dalle sue. Ricercava quell’amore ricordando, grazie a loro, le volte in cui veniva sgridata, le volte in cui veniva abbracciata dai suoi genitori.
Fuori, il paesaggio mutava. Nuove case erano sorte, cancellando la piccola collina su cui sorgeva la chiesa buffa che da bambina chiamava il “pandoro divino”. Forse, pensò sorridendo, persino Dio sarebbe stato più dolce lì dentro. Chissà se quel pandoro potesse mancare ai bambini di oggi, oppure se si fossero inventati forme fantastiche dove gli dèi erano più umani e simpatici.
Nel frattempo, la gente continuava a salire e scendere. I volti erano diversi, le mode cambiate. Le signore in pelliccia ormai non si vedevano più. I ragazzi erano più silenziosi, chiusi nel loro mondo di musiche misteriose ascoltate attraverso quel magico rettangolo che assorbe ogni pensiero. Rubava la vita dalle vite degli altri, osservando una giovane ragazza che riusciva a essere elegante anche mentre mangiava un pezzo di focaccia, lasciando cadere briciole sui suoi abiti.
Anche l’odore della mortadella, grazie a lei, le sembrava buono in una carrozza piena di volti grigi e odori, talvolta non troppo apprezzabili. Fantasticava sulla sua provenienza, immaginandola come una viaggiatrice instancabile, con un mondo davanti agli occhi ancora tutto da scoprire.
Da tempo Maria non aveva più nessuno da andare a trovare, ma, come recitava una delle sue canzoni preferite, amava viaggiare per il semplice piacere di farlo. Il potere magico di una locomotiva che riusciva a trasportarla avanti e indietro nel tempo, quella dolce forza che la cullava, quella spasmodica ricerca di ritrovare nei viaggiatori gli affetti di un tempo. La sua solitudine la coltivava così, fra volti, odori, rumori e paesaggi: una maledizione che diventava benedizione, la vita che ancora pulsava in lei come un treno. In ogni suo viaggio, ogni piccola storia che si intrecciava con la sua le dava una sensazione di connessione. Anche se non si fermavano mai a parlare, Maria capiva che ognuno di loro portava con sé un bagaglio di sogni, sofferenze e speranze. Forse, pensò, era questo il vero significato del viaggio: non la destinazione, ma l’incontro con gli altri lungo il cammino.
Maria pensava di avere un superpotere: quello dell’invisibilità. Effettivamente, fra i passeggeri del treno, non spiccava; era una figura anonima fra tanti anonimi, ma, data l’età, sembrava che facesse ormai parte dell’arredo dei treni regionali, come qualcosa che c’era sempre stato e a cui non ci si fa più caso.
S’innamorava degli occhi innamorati di chi guardava l’amato, e ovviamente erano le coppie più giovani a donarle energia vitale. Lei guardava gli altri, ma nessuno sembrava far caso a lei, e questo non la intristiva; anzi, le dava un senso di libertà da eventuali giudizi non richiesti.
Sentiva le loro voci, si emozionava delle loro emozioni, positive o negative che fossero. Il vampiro dei pendolari e dei viaggiatori distratti. Rideva fra sé e sé quando pensava a questo. Si sentiva viva con le vite altrui, si sentiva viva grazie agli altri che le ricordavano la sua vita passata, anche se ormai il metro che la misurava le diceva chiaramente che i centimetri che aveva usato erano molti più di quelli che le restavano.
Osservava tutti, compresi i viaggiatori più anziani di lei, e pensava al suo futuro, quando, con poca memoria e gambe stanche, forse si sarebbe persa in qualche stazione e si sarebbe salvata grazie all’aiuto di qualche giovane gentile nei paraggi. Ormai vedeva la sua fine così. Non che fosse troppo triste all’idea di scomparire del tutto in uno dei suoi viaggi: aveva lasciato che il tempo le scivolasse addosso, come la pioggia sui finestrini dei treni, senza opporre resistenza. Era stata contenta della sua vita: aveva avuto buoni affetti, relazioni sincere, un tetto sopra la testa e nessun problema economico significativo. Non si era mai sposata, anche se aveva vissuto una lunga convivenza, finita ormai da tempo per il naturale esaurirsi di un sentimento che non riusciva più a tenerla accesa. Il lungo ciclo del lavoro era da tempo alle sue spalle, e non ricordava più nemmeno chi fosse stata in quella dimensione fatta di orari e mansioni da rispettare.
Amava la libertà, e aveva amato anche la sua solitudine, fatta di decisioni dell’ultimo minuto, pomeriggi al cinema e, ovviamente, tanti viaggi in treno. Un tempo seguace del buddismo, conosceva il significato profondo della ciclicità dell’esistenza, della futilità del possesso e dell’impermanenza delle cose. Attendeva, semplicemente, di arrivare alla fine del suo ciclo con serenità, senza scossoni.
Stava osservando come l’insegna di una piccola stazione fosse ormai deturpata dal tempo, quando, quasi senza accorgersene, pensò a quanto si somigliassero e sorrise a quel pensiero.
“Mi fa piacere che abbia pensieri felici,” disse una voce. Maria alzò lo sguardo e vide un uomo seduto di fronte a lei, di cui non aveva notato la presenza.
Arrossì, spiazzata dal fatto di essere stata sorpresa nei suoi pensieri solitari. Non poté fare altro che rispondere con un sorriso a quell’uomo.
“Sa, succede spesso a noi persone âgées,” disse, cercando di alleggerire l’imbarazzo, “ci perdiamo nei ricordi e sorridiamo indulgenti al nostro passato.”
“Capisco perfettamente, succede anche a me,” rispose l’uomo, sorridendo. “Piacere, mi chiamo Alberto. Dove è diretta?”
“Piacere, sono Maria.” Restò in silenzio per un attimo, indecisa se inventare una piccola innocente bugia per superare l’imbarazzo o dirgli la verità. “Conosce Khorakhanè?”
“È di origine rom, Maria?”
“No,” rispose lei ridendo, “mi riferivo alla canzone di Fabrizio De André. È un brano struggente che racconta lo stile di vita e l’assoluta libertà del popolo rom. Nel testo, i rom sono rappresentati come un popolo senza una vera casa, quindi totalmente liberi e privi di condizionamenti socio-economici. Da qui la metafora: la vita è come il viaggio di un rom, che parte senza sapere la meta e senza preoccuparsene, perché il fine diventa solo un dettaglio interessante, non lo scopo dell’esistenza umana. ‘Per la stessa ragione del viaggio: viaggiare…’”
“Conosco quel popolo di ‘amanti del Corano’, le cui persecuzioni sono purtroppo ben note. Non conoscevo questa canzone, ma mi piacerebbe ascoltarla. Si occupa di musica, Maria?”
Maria si sentì sempre più spiazzata. Non solo aveva perso all’improvviso il suo superpotere di invisibilità, ma qualcuno continuava a chiamarla per nome. Una cosa che non le capitava da tempo. Ma davvero quell’uomo era così interessato a ciò che aveva da dire? Mentre rifletteva, si accorse che una parte di sé, che credeva ormai perduta, stava riaffiorando. Provare di nuovo quella sensazione di attenzione non era nei suoi piani, e cercò di respingerla, combattendo tra pensieri razionali e quel sentimento che le dava pugni nella sua realtà. Doveva mantenere il controllo. Non poteva permettersi di lasciarsi andare. “Questo uomo è troppo bello,” pensò. “Figurati se mi considera davvero, almeno non in quel senso. Maria, non sei mai stata una donna bella. Hai avuto qualche corteggiatore, certo, ma erano anni che niente ti faceva battere il cuore. Non serve più, ormai, quel tipo di attenzione.” Eppure… il pensiero le martellava ancora nella mente: “Magari mi piace. Forse mi chiederà il numero, forse… No, Maria, non andare oltre. Sii razionale, goditi questa chiacchierata senza lasciarti trasportare.”
“No, mi occupavo di contabilità un tempo,” rispose, “la musica mi piace, ma non sono molto esperta.” Poi si corresse mentalmente: Non sminuirti!
“Ho alcune melodie che mi accompagnano da anni e alcune parole di poeti che mi sono rimaste dentro, diventando una guida per me.”
Poi, con un sorriso nervoso, aggiunse: “Dio, sto parlando troppo? La sto annoiando? Non vorrei disturbarla… scusi.”
“Ma no,” rispose lui, “non mi sta annoiando affatto, la prego, continui.”
“‘Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare’. Forse le sembrerà strano che, per viaggiare, non intenda andare in luoghi lontani alla scoperta di usi, lingue e tradizioni diverse dalle nostre, o per vedere altri colori, forme e geometrie, naturali e non. Non che questo non abbia avuto importanza per me, ma ormai non me la sento più di partire per mete lontane. Con il tempo, ho imparato ad apprezzare i ritmi lenti e la comodità. Ma non rinuncio a osservare l’umanità. Si può viaggiare anche con un operaio che sale sul treno per andare a lavorare. I pendolari sono persone affascinanti, sa?”
“No,” pensava Maria, stavolta lo sto proprio annoiando. “Lui è troppo gentile per dirlo, per sviare il discorso, per andare a sedersi in un altro vagone.”
“Ah,” disse lui, “non ne ho alcun dubbio. D’altronde, anche io, per un periodo, ho fatto parte di quella fetta di umanità su rotaie. Ma la prego, Maria, continui, mi sto appassionando a ciò che descrive.”
Madonna santa, pensava Maria, cercando di restare calma. Questo Alberto ha delle mani bellissime e un sorriso… Quanti anni avrà? Non sembra più giovane di me, ma neanche vecchio. Mi guarda con un’aria seduttiva, probabilmente rivolge questo tipo di sguardo a tutte le persone con cui parla, ma a me fa battere il cuore. E questo cuore, manco ricordavo dove fosse finito…
“Poi ci sono i giovani e le famiglie, i miei soggetti preferiti,” continuò Maria, prendendo fiato. “Nei ragazzi si leggono i segni dell’amore, della delusione. I loro odori, ancora impregnati di ormoni in fermento, anche se non sempre sono piacevoli,” sorrise. “Poi ci sono gli studenti, le combriccole, i solitari persi nei loro mondi. Mi fanno una tenerezza incredibile. Sono gli stessi ragazzi che ho visto bambini, viaggiare con i genitori, tenuti in braccio o per mano nei corridoi dei treni prima di trovare finalmente un posto a sedere. Padri e madri amorevoli, figli che si lamentano o sono troppo entusiasti, bambini e ragazzi che mi ricordano chi ero.”
“Sa, non ci avevo mai pensato a uno studio osservazionale sul treno,” disse Alberto ridendo. “È molto interessante. Quindi lei si occupa di antropologia sociale?”
“No, si figuri,” rispose Maria, tentando di sdrammatizzare. “Sono solo una contabile, ormai in pensione, che cerca di passare il tempo osservando persone e paesaggi. Ho sempre pensato che un giorno avrei scritto un racconto o una raccolta di poesie, ma ancora non ho messo giù neanche una riga. Un po’ come nel viaggio, dove l’importante non è la meta, ma il viaggio stesso.
Anche il mio ‘studio’ mi porta a esplorare l’intimo umano, arricchito dalla mia fantasia. Ma mi dica, lei di cosa si occupa, Alberto?”
“Maria, dammi pure del tu, ti prego.” Fu impossibile per lei non arrossire e sorridere.
“Mi occupavo di arredamento nautico,” rispose lui. “Ho iniziato da giovane, prima come skipper, poi sistemando alcune barche di amici. Mi sono lasciato prendere la mano e così ho avviato una piccola attività artigianale, che con il tempo è diventata un’impresa e ha occupato gran parte della mia vita, portandomi in giro per terra e per mare. Ora sono felicemente in pensione, sto tornando da un piccolo raduno di famiglia e vivo in una casa su una collina, vicino alla prossima stazione.”
Maria si sentì quasi sopraffatta dalla sua voce calma e dalle parole che sembravano danzare nell’aria. Lui non era solo interessante, ma c’era qualcosa di misterioso in Alberto, qualcosa che lo rendeva ancora più affascinante.
“Non vorrei sembrare invadente,” disse lui dopo una pausa, “ma visto che scenderai a breve, ti dispiacerebbe se ci scambiassimo i numeri di telefono? Mi piacerebbe riprendere questa conversazione, magari davanti a un caffè. Che ne dici?”
“Certo, Alberto,” rispose Maria, cercando di contenere il tremolio improvviso della sua voce, ancora incredula per quell’inaspettato incontro.
Si salutarono, e Maria proseguì il suo viaggio, per poi tornare indietro dalla stazione successiva. In quel momento, i suoi studi sull’umanità viaggiante sui treni si persero nei giochi della sua mente, che correvano su binari ben diversi. Il tempo, a volte, lasciava un sapore amaro, e per quanto si lotti, anche il più dolce non si può fermare. Ma in ogni movimento, anche nei più lenti, finché c’è vita, c’è ancora bellezza: non solo da ricordare, non solo da vedere riflessa negli altri, ma tutta da scoprire.
Sognante, Maria rimase sospesa in quei pensieri, persa nel filo dei ricordi e delle emozioni che l’avevano attraversata, fino a che non si accorse, solo dopo un po’, di una voce che la chiamava con insistenza: “Signora? Signora? Mi scusi, signora, dovrei controllarle il biglietto.”
Il richiamo la riportò brutalmente alla realtà, interrompendo quel mondo di pensieri, quel viaggio cullato dal treno, che l’aveva catapultata in un viaggio interiore che sembrava quasi un sogno. Con un leggero sospiro, Maria si risvegliò e, con il biglietto in mano, tornò a confrontarsi con il presente, consapevole che poteva ancora fantasticare non solo sulle vite degli altri, ma anche sulla sua, riscoprendosi ancora assetata di sorprese.

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