Le 20:00 erano già passate da un pezzo e di quell’uomo nessuna traccia. Mi ci era voluto tutto il coraggio che ero riuscita a raccogliere per invitarlo a cena e mi sentivo orgogliosa della mia azione andata a buon fine. Non sono una persona che prende facilmente l’iniziativa, mi faccio mille paranoie. Sapete non sono più giovane e bella come un tempo, il mio corpo sta perdendo un po’ di tonicità e, anche se posso vantare ancora un seno florido e un sedere magnanimamente sodo, non sono più tanto sicura del mio fascino. Generalmente non frequento i locali, preferisco i forestieri. Mi piacciono gli uomini soli … Dio delle città e dell’immensità, quanta mestizia trovo in loro. Li avvicino con una scusa, mi faccio raccontare delle loro vicissitudini, gli offro comprensione in saldo per poi svendere loro la mia tenerezza.
Si chiamava Patrizio, veniva dal sud, l’avevo approcciato in un gruppo di auto/aiuto per i giocatori compulsivi di Ruzzle. Ci vedevamo il giovedì sera durante le riunioni, l’avevo notato subito per il suo fisico statuario che si contrapponeva alla sua aria un po’ dimessa e per quello sguardo un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi a Genova. Non interveniva mai, se ne stava spesso a capo chino come se si vergognasse di essere li in quel momento. Avevo preso a mettermi vicino a lui, ogni tanto gli sorridevo e gli tenevo la mano facendogliela posare delicatamente sulle mie cosce. Una sera dopo la riunione lo invitai a bere qualcosa al bar del circolino che ci ospitava, all’inizio faticai non poco a cavargli le parole di bocca. Parlava a monosillabi, non riusciva più di tanto a sostenere il mio sguardo, dovetti usare tutto il mio tatto affinché si aprisse con me. Dopo un paio di bicchieri cominciò a raccontarmi tutto della sua vita, dell’infanzia trascorsa nella masseria di suo nonno nelle Murge, del padre alcolizzato, della madre depressa e della sua prima partita a Ruzzle. Ogni tanto interrompeva i suoi racconti come se avesse paura di scoppiare in lacrime e allora io m’inventavo una battuta per distrarlo e farlo sorridere. Nei giovedì successivi il ritrovarsi a bere al bar dopo le riunioni era diventato per noi una bella consuetudine. Sapevo di piacergli, non che mi avesse mai detto qualcosa direttamente a tal proposito, ma lo intuivo dal fatto che ogni scusa era buona per lui per abbracciarmi, per toccarmi. Fu la sera che si fermò in macchina a chiacchierare con me che trovai il coraggio d’invitarlo a cena. Parlammo per ore, finimmo per baciarci dolcemente per poi abbandonarci ad ispezionare l’uno il corpo dell’altra. Aveva un buonissimo odore, le miei mani avevano percepito quanto la natura fosse stata generosa con il suo sesso, desideravo che mi prendesse e che mi facesse sua, ma non volevo affrettare le cose. La cena al ristorante, del buon vino e l’invito a casa mia sarebbero stati la giusta cornice per la nostra prima notte di amore.
Non mi era neanche sfiorato il minimo dubbio che lui potesse cambiare idea, l’avevo sentito eccitato e pronto ad abbandonarsi con me alla passione più sfrenata. Non so quante volte mi era venuta voglia di toccarmi pensando a lui, ma m’impegnavo a trattenermi per accumulare energia sessuale da disperdere gioiosamente insieme in tutti i modi, in tutti i luoghi e in tutti i laghi.
Riflettendoci bene credo che avrei dovuto far caso ad alcune delle piccole avvisaglie che sicuramente potevano farmi intuire quello che veramente gli passava dalla testa, ad esempio il suo silenzio alle riunioni del gruppo di auto/aiuto che alla lunga cominciava ad essere davvero strano. Quando stavamo insieme spesso mi parlava con vocaboli inesistenti e si rallegrava in modo esagerato quando riusciva a tirare fuori lunghi paroloni. Ma forse ero io che non volevo accettare la realtà, mi ero infatuata del suo fascino apulo-lucano, avevo scambiato la sua malattia per una timida dolcezza.
Lo aspettai ancora per un altro quarto d’ora, poi sconsolata mi alzai dal tavolo e me ne andai. Lui non rispondeva al telefono che sentivo squillare libero. Non sapevo dove abitasse, non potevo rintracciarlo. Una volta tornata a casa mi attaccai al rhum invecchiato che avevo comprato con l’intenzione di offrirglielo, dopo un po’, in lacrime, mi stesi sul divano allungai la mano e presi lo smartphone. Ero debole, mi sentivo in qualche modo tradita e in preda ad uno stato febbrile, quasi non fossi del tutto conscia di me, scaricai nuovamente quella debilitante applicazione. Mi sorpresi a ricordarmi il mio nick name e la mia password, in pochi secondi avevo già scelto la ricerca di un avversario casuale, ma non ebbi neanche il tempo di sistemarmi comodamente che sentii quel trillo che tanto mi aveva sussultare, presi il telefono, sulla schermata apparve il messaggio: “Patrizio61 ha accettato il tuo invito a giocare”. Mi sembrava di aver improvvisamente ricevuto una secchiata d’acqua fredda, tutto quello che ero riuscita a conquistare ultimamente e i miei sogni furono spazzati via in un istante, c’eravamo ricaduti entrambi.
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