Amelia

Sola, mangiava una mela seduta su una panchina, osservava i bambini che giocavano nel parco. Mangiava così lentamente che la mela le diventava sempre tutta marrone.

Vista da lontano, con il suo vestitino giallo, appariva come un punto di luce in mezzo al verde.

Non sembrava curarsi degli adulti che ogni tanto le si sedevano accanto, neanche del vecchio libro che teneva posato sulle gambe. Preferiva guardare i bambini che correvano sull’erba, dondolavano sull’altalena e scivolavano sullo scivolo.

Non ero riuscita a definire la sua età, mi sembrava troppo giovane per poter essere vecchia e troppo vecchia per poter essere ancora giovane. La vedevo spesso qua al parco, seduta sulla stessa panchina, che mangiava puntualmente una mela e che non leggeva mai il libro che si portava appresso.

Non sapevo come si chiamasse, ma avevo deciso di chiamarla Amelia. Pensavo fosse di  origine nordeuropea chiara com’era di pelle e di capelli, forse era arrivata dalle nostre parti da ragazza e, innamoratasi delle nostre colline, aveva deciso fermarsi a vivere qui.

Probabilmente aveva avuto qualche relazione in passato, ma negli anni riuscivo a figurarmela solo in compagna di qualche sua vecchia conoscente e di un piccolo esercito felino.

Il suo aspetto era elegante, le sue movenze aggraziate, adoravo i suoi vecchi libri, l’abbigliamento semplice e curato. Mi piaceva pensare a lei come ad una donna colta che amava ricaricarsi attraverso l’energia dei bambini che giocavano nel parco.

Ero davvero affascinata da quella donna incredibilmente delicata, credevo fosse davvero una gran bella persona fino a quando balzò addosso ad un ragazzino che le era passato sopra i piedi con la bici e gli staccò un orecchio con un morso.

Joni Mitchell

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