di Sabrina Ancarola
Faccio cose perché sono inquieta, scrivo perché, dare una forma alla mia inquietudine, a volte è divertente. Sono cantante, presentatrice, scrittrice e autrice di pièce teatrali e cene con delitto. Non so cosa mi riesce peggio, ma mi ostino perché mi piace ballare pur non sapendo affatto ballare.

  • Sono giorni orribili per l’umanità, sappiamo bene quel che accade: quanto il mondo ricco e potente schiacci gli altri per rimanere tale, e quanto venga commesso nel nome di un Dio più terribile di Lucifero.

    Questa indole malata di chi può fare il buono e il cattivo nel nostro pianeta ci sopraffà. Qua in Italia – almeno quelli di noi che hanno la fortuna di avere un tetto, del cibo e le cure se ci ammaliamo – siamo come i nostri omologhi in altre nazioni, subissati da messaggi che impongono il più sfrenato consumismo, il tutto per apparire possibilmente vincenti e con un corpo perfetto da selfie. Nel mentre ci istigano alle paure verso chi ha una provenienza e una cultura diversa dalla nostra, un’operazione facile facile poiché siamo fottutamente colonialisti dentro.

    Poi ci sono i nostri fratelli che vengono affamati, sloggiati, uccisi per far posto alla razza eletta. Altri sfruttati dal lavoro, abusati sessualmente, in un clima di guerre sparse sempre per un dominio, per denaro, per un ideale di potenza.

    In tutto questo noi persone comuni o ce ne freghiamo, o tifiamo per il carnefice, o stiamo male. Difficile ci siano vie di mezzo, senza ricorrere ad alcun tipo di rifugio materiale, spirituale o di droghe a buon prezzo.

    Siamo angosciati e ci sentiamo impotenti per quello che vediamo, quando vogliamo vederlo. Siamo preoccupati per il futuro.

    Equilibrata io non lo sono mai stata, ma dato che non sono sotto le bombe e al momento nessun colono sembra intenzionato a portarmi via la casa e la mia vita, sono combattuta fra l’urlare e il piangere, perché quel che vediamo è davvero mostruoso.

    In questa società dove ci si sente oggetti più che soggetti, ho scelto di evadere poiché posso farlo, poiché ho la fantasia. Nei miei tantissimi dubbi ho la profonda convinzione che ogni vita dev’essere degna di rispetto, ognuno dovrebbe avere gli stessi diritti, nessuno dovrebbe fare male all’altro. Insomma: giustizia, il principio morale, la virtù consistente nel dare a ciascuno il dovuto, nel giudicare con equità: comportarsi, agire, valutare secondo giustizia. La giustizia sociale, l’equa ripartizione dei beni e, in particolare, l’abolizione di ogni forma di sfruttamento (fonte: Il Sabatini Colletti).

    Ho la fortuna di avere una solida famiglia, amicizie preziose e buone conoscenze anche virtuali che, alle mie domande poste su Facebook:

    “Di cosa abbiamo realmente bisogno?”

    “Di cosa abbiamo davvero bisogno noi persone comuni?”

    “Di cosa ha realmente bisogno l’intera popolazione umana, anche quella a noi invisibile?”

    hanno risposto:

    “Io in questo momento di pace e giustizia.”

    “Siamo umani, di umanità.”

    “Attenzione, vogliamo essere attenzionati.”

    “Tempo. Gentilezza. Pace e fiori negli occhi e nei nostri cuori.”

    “Di silenzio.”

    Mi ci ritrovo in queste risposte, sono anche i miei bisogni, a cui aggiungo il bisogno di amore, perché ne vediamo in giro davvero poco. L’amore è il sogno ci fa continuare a sognare. I nostri sogni e le nostre fantasie idealiste, nessuno ce le può portare via.
    I rapporti umani, quando sono autentici, aiutano, ma abbiamo bisogno anche di altri beni rifugio, e io li trovo nella musica che mi aiuta sempre a volare alto poiché in molta musica c’è amore. Un po’ come questa canzone, che riesce a farmi stare in alto con gli uccelli, a farmi immaginare che si può, a liberarmi dal peso e dal tormento, a rendermi ancora nuova.

  • La cecità del rancore, il fuoco che divora, alimentato da bugie.
    Pensi davvero che la tua rabbia, questa rabbia da belva, sia liberatoria?
    Sei incatenato. E più ti arrabbi, più la catena si stringe, ti soffoca.
    Ti restano pochi respiri.

    Mario e Alice, una vita insieme. Lavoro, sacrifici, risparmi investiti in una bella casa. Figli, nipoti, le serate al circolo del paese. E la messa la domenica, anche se sempre più di rado. Non si poteva però mancare alle feste comandate, non stava bene. Che avrebbe detto la gente?

    Quando la TV iniziò a ripetere ossessivamente che “ci stanno invadendo”, Mario e Alice cominciarono a preoccuparsi. Per i loro risparmi, per la casa, per la loro famiglia. Vedevano i prezzi al supermercato salire, ma resistevano. Con un buon conto in banca e qualche titolo alle Poste, riuscivano ancora a tenere botta, ad aiutare i figli. Ma si chiedevano, con ansia: “E loro, riusciranno a fare lo stesso per i nostri nipoti?”.

    Poi arrivarono i social network. Si tuffarono a capofitto in quel mondo. Si emozionavano per le vecchie foto del paese, si indignavano per i cuccioli abbandonati. Fino a quel momento, la loro vita era stata quasi priva di incertezze.

    Nella solita spiaggia estiva, incontravano spesso Ahmed, un simpatico vu’ cumprà. Non avevano mai pensato alla sua religione, ma ora, grazie a internet, avevano “capito”: quella brava persona era un islamico e, come tale, poteva — insieme ai suoi simili — invadere e minacciare il loro mondo.

    Iniziarono ad avere paura. Un’entusiasmo malato li invadeva quando leggevano di naufragi di “clandestini invasori”. Anche se erano neonati, restavano una minaccia.

    Smarriti, trovano conforto nei social, unendosi attorno a un leader politico simpatico e risoluto, che si preoccupava per loro ogni volta che uno straniero o un “diverso” minacciava lo Stato. Il leader, un fan delle ruspe, che sapeva sempre cosa fare.

    Ed era esaltante, per due persone semplici come loro, sentirsi parte di una comunità, partecipare attivamente a uno shitstorm contro il “nemico” del giorno. Mario, una bravissima persona che non aveva mai fatto male a una mosca, si ritrovava a minacciare di stupro le “zecche” nemiche del popolo. Alice, sempre disponibile con tutti, tra un micetto e l’altro non risparmiava auguri di morte a stranieri, zingari e a quelli “del gender”.

    Sempre insieme, ieri come oggi. Una vita di sacrifici da difendere a ogni costo. Per questo si erano comprati una pistola.

    Per questo non esitarono a usarla, quella notte, quando sentirono qualcuno intorno a casa. Quando Mario sparò al nipote, pensando fosse un ladro.

  • Per i soldi, per la supremazia, per un vano potere, si uccide, anzi, si sterminano intere popolazioni.
    Non per Dio, l’essere supremo, eterno, perfettissimo, creatore e ordinatore dell’universo, che non potrebbe essere così feroce. (Anche se, a dirla tutta, il Levitico non è che lo dipinga proprio magnanimo.)
    Ma Dio non dà prova della sua esistenza. Non l’ha mai data in passato, non la dà oggi.

    Per un probabile processo da materia non vivente, attraverso un’evoluzione chimica e poi biologica, è nata la vita. E siamo nati anche noi: una tra le 4-100 milioni di specie. Questo dovrebbe farci sentire piccoli piccoli, un niente.

    Robert Adler, su New Scientist, ha scritto:
    “Secondo la teoria delle stringhe, esistono 10.500 universi paralleli. Allo stesso modo, per la meccanica quantistica, il nostro universo è solo un piccolo fiocco di neve in una bufera di universi paralleli. Oggi il compito degli studiosi è sviluppare e mettere in relazione queste idee.”
    Il nostro niente, così, viene ampiamente superato.

    War, war is stupid
    And people are stupid

    Gemini riporta che la più antica forma di conflitto armato di cui si abbiano prove archeologiche risale a circa 10.000 anni fa, con ritrovamenti di scheletri con punte di freccia conficcate nel Sudan settentrionale. Tuttavia, la guerra è una pratica umana che precede la scrittura e la formazione degli stati. Gli antropologi e gli storici ancora dibattono su quando, esattamente, possa essere considerata “guerra”.

    Noi, che dovremmo essere tra gli animali più evoluti di questo infinitesimale granello di sabbia del multi-universo, ci siamo da subito adoperati per distruggerci.
    Così è stato. Così è.
    E temo che così sarà, fino alla nostra auto-eliminazione totale.
    Ci sopravviveranno gli scarafaggi, che forse, forse, sono più evoluti di noi.


    L’investimento nelle guerre ha raggiunto livelli record: miliardi di dollari destinati alla produzione di armamenti e al mantenimento degli eserciti.
    Le conseguenze sono devastanti.
    Tranne per chi sulle guerre ci investe.

    Mi chiedo se poi proveranno piacere a marcire nei loro bunker dorati, quando il grosso dell’umanità sarà fottuto.

    L’investimento nella pace, spesso contrapposto alle spese militari, non è quantificabile in un’unica cifra. È un insieme di azioni e politiche volte a prevenire i conflitti e promuovere la cooperazione internazionale.

    Le spese militari, invece, sono ben tracciabili:
    nel 2024, in Italia, hanno raggiunto circa 29 miliardi di euro.
    Previsione per il 2025: 32 miliardi.

    Ergo: la pace non fa girare l’economia.
    Non la nostra economia. La loro.


    Il capitalismo ha vinto, per ora.
    E avanza sempre più ferocemente, distruggendo case per accaparrarsi terre che diventeranno splendidi resort per ricchi.
    I potenti sognano un mondo esclusivo, dove chi ha avuto il culo di sopravvivere potrà godersi la straordinaria opportunità di fare lo schiavo.

    E poi gli stronzi come me attaccano chi parla di capitalismo quando proviamo a parlare di disuguaglianze, in un mondo in cui il cafone di turno spende alcuni dei milioni del suo capitale, circa 237 miliardi, mentre altrove la gente muore di guerre, di fame, di sete, per cause ambientali.

    Non molto tempo fa sono morti 11 bambini, tra i quattro e i nove anni, travolti dal fango di una fossa mentre erano intenti a fare mattoni per “pagarsi gli studi”.

    Per sconfiggere la fame nel mondo, le stime variano, ma si parla di miliardi di dollari. Alcune fonti suggeriscono che un investimento aggiuntivo di circa 11 miliardi di dollari all’anno potrebbe fare la differenza. Altri, come Oxfam, indicano che una piccola percentuale della spesa militare globale, circa il 2,9% delle spese militari dei paesi del G7, potrebbe fornire risorse sufficienti per azzerare la fame e risolvere la crisi del debito estero, pari a circa 35,7 miliardi di dollari secondo Slow Food. La Banca Mondiale, invece, ha indicato la necessità di un investimento aggiuntivo di 70 miliardi di dollari in 10 anni per raggiungere gli obiettivi di nutrizione stabiliti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
    È importante notare che queste sono stime e i costi effettivi potrebbero variare a seconda di diversi fattori, tra cui la natura e la durata dei conflitti, i cambiamenti climatici e le politiche economiche.
    Per affrontare la fame nel mondo, non si tratta solo di fornire cibo, ma anche di investire in istruzione, sviluppo rurale, e sistemi di protezione sociale che permettano alle persone di sfuggire alla povertà e alla malnutrizione.

    Ergo: se Jeff Bezos investisse un po’ di vaini per la fame nel mondo resterebbe comunque un multimiliardario.

    Che ci volete fare: noi, le zecche buoniste, sogniamo un mondo più equo.
    Un minimo di giustizia sociale su questo minuscolo pianetino E che cazzo!.


    Questi vecchi capitalisti ci stanno fottendo.
    Stanno fottendo il nostro futuro, quello dei nostri figli, nipoti e pronipoti.
    E lo fanno anche attraverso i social, inducendoci a desiderare il lusso.
    Un lusso costruito sui cadaveri di chi è morto sotto le bombe, o per la fame, o per la sete.

    Spero almeno in una vendetta da parte dei morti in pieno stile Kinghiano.

    E lo fanno in nome di Dio.
    Perché ‘sti colonialisti di merda non se ne sono mai andati davvero.
    Si sono costruiti una mission da rivendere agli stronzi come me che la devono pure propagare.

    Mi esimio dal bestemmiare, ma ne avrei tanta voglia.
    Come avrei voglia di credere in Dio, nel karma, in qualche forma di equilibrio tra causa ed effetto.

    Io li odio, ‘sti vecchi di merda.

    Odio i bacchettoni.
    Odio chi disprezza la vita umana.
    Odio chi fa differenze tra la propria vita privilegiata e quella di chi ha avuto meno fortuna, come se ci fosse davvero un diritto naturale alla sopravvivenza.

    È proprio la visione di questi vecchi di merda, con i loro “io, io, io!”, che ci sta condannando tutti.
    Questi vecchi che puntano il dito contro i migranti, contro gli ambientalisti, contro chiunque, tranne che contro chi li ha davvero fottuti.

    Vorrei concludere con un messaggio di speranza.
    Ma, a parte la prospettiva di rotolare come un ruzzolamerde, non mi viene in mente altro.

    Maledetti vecchi di merda!

  • Vorrei rivedere le stesse finestre, gli stessi fiumi, le stesse campagne. Vorrei ancora stupirmi quando il mare appare all’improvviso, dopo le colline, dopo le fabbriche.

    Per questo Maria preferiva viaggiare in treno: per le sorprese del paesaggio che scorrevano davanti ai suoi occhi, quadri sempre uguali e sempre diversi, incorniciati dal finestrino. Avrebbe potuto scegliere linee veloci; poteva permetterselo, viaggiare in prima classe, comodamente seduta, con snack e bevande offerti all’occorrenza, ma a quella velocità eccessiva preferiva la lentezza tranquilla dei treni regionali. C’era qualcosa di rassicurante in quel procedere cadenzato, un tempo sospeso tra la partenza e l’arrivo, che le permetteva di osservare senza fretta. Guardava, stazione dopo stazione, quanto tutto fosse rimasto uguale. E quanto fosse cambiato. Una donna anziana saliva con la borsa della spesa, un ragazzo con le cuffie si sedeva senza togliersi lo zaino. Un bambino premeva il naso contro il vetro, tracciando linee invisibili nel riflesso del cielo. Maria osservava senza una meta precisa. Viaggiare non era solo arrivare, ma lasciarsi attraversare dal tempo e dai luoghi, alleggerendosi di ciò che era superfluo. Forse, pensò, il segreto della leggerezza stava proprio in quel lento scorrere. E di quella leggerezza Maria sentiva un assurdo bisogno. Pur amando il tempo che scorreva fuori dal finestrino, odiava vederlo scritto sul proprio viso, nei solchi ineluttabili dell’età. Restava attaccata al vetro come una ventosa, aggrappandosi ai ricordi, per poi lasciarsi andare all’osservazione analitica dei passeggeri che si susseguivano, tappa dopo tappa.
    Su quei treni aveva viaggiato fin da bambina, quando i suoi genitori, originari del sud, la portavano al paese. Viaggi infiniti che allora non amava, ma che ora avrebbe voluto rivivere. Se avesse potuto esprimere un solo desiderio, sarebbe tornata indietro, su quelle carrozze piene di famiglie chiassose, dove si tiravano fuori pane, formaggio e salsicce per rifocillarsi. Dove l’odore del caffè nei thermos, offerto generosamente ai vicini di sedile, si mescolava al sentore di nafta. Le stazioni, le coincidenze da aspettare per salire su treni sempre più vecchi, con sedili di legno scomodi, che da piccola la facevano fantasticare sui viaggi degli antenati e sui personaggi dei film in bianco e nero. Allora non era sola. Qualcuno si prendeva cura di lei. E, alla fine di quelle lunghe ore di viaggio, c’era sempre una famiglia da ritrovare. Ora, immersa nei ricordi, cercava di far riaffiorare nella mente i profumi di un tempo passato. Il profumo di verbena di sua madre.

    Il dopobarba misto a sudore di suo padre. La fragranza del bucato appena lavato, il sapone di Marsiglia che impregnava i vestiti nelle valigie. Fra i protagonisti dei suoi viaggi, sceglieva spesso le famiglie, si rivedeva in loro anche quando avevano origini molto diverse dalle sue. Ricercava quell’amore ricordando, grazie a loro, le volte in cui veniva sgridata, le volte in cui veniva abbracciata dai suoi genitori.
    Fuori, il paesaggio mutava. Nuove case erano sorte, cancellando la piccola collina su cui sorgeva la chiesa buffa che da bambina chiamava il “pandoro divino”. Forse, pensò sorridendo, persino Dio sarebbe stato più dolce lì dentro. Chissà se quel pandoro potesse mancare ai bambini di oggi, oppure se si fossero inventati forme fantastiche dove gli dèi erano più umani e simpatici.
    Nel frattempo, la gente continuava a salire e scendere. I volti erano diversi, le mode cambiate. Le signore in pelliccia ormai non si vedevano più. I ragazzi erano più silenziosi, chiusi nel loro mondo di musiche misteriose ascoltate attraverso quel magico rettangolo che assorbe ogni pensiero. Rubava la vita dalle vite degli altri, osservando una giovane ragazza che riusciva a essere elegante anche mentre mangiava un pezzo di focaccia, lasciando cadere briciole sui suoi abiti.
    Anche l’odore della mortadella, grazie a lei, le sembrava buono in una carrozza piena di volti grigi e odori, talvolta non troppo apprezzabili. Fantasticava sulla sua provenienza, immaginandola come una viaggiatrice instancabile, con un mondo davanti agli occhi ancora tutto da scoprire.
    Da tempo Maria non aveva più nessuno da andare a trovare, ma, come recitava una delle sue canzoni preferite, amava viaggiare per il semplice piacere di farlo. Il potere magico di una locomotiva che riusciva a trasportarla avanti e indietro nel tempo, quella dolce forza che la cullava, quella spasmodica ricerca di ritrovare nei viaggiatori gli affetti di un tempo. La sua solitudine la coltivava così, fra volti, odori, rumori e paesaggi: una maledizione che diventava benedizione, la vita che ancora pulsava in lei come un treno. In ogni suo viaggio, ogni piccola storia che si intrecciava con la sua le dava una sensazione di connessione. Anche se non si fermavano mai a parlare, Maria capiva che ognuno di loro portava con sé un bagaglio di sogni, sofferenze e speranze. Forse, pensò, era questo il vero significato del viaggio: non la destinazione, ma l’incontro con gli altri lungo il cammino.
    Maria pensava di avere un superpotere: quello dell’invisibilità. Effettivamente, fra i passeggeri del treno, non spiccava; era una figura anonima fra tanti anonimi, ma, data l’età, sembrava che facesse ormai parte dell’arredo dei treni regionali, come qualcosa che c’era sempre stato e a cui non ci si fa più caso.

    S’innamorava degli occhi innamorati di chi guardava l’amato, e ovviamente erano le coppie più giovani a donarle energia vitale. Lei guardava gli altri, ma nessuno sembrava far caso a lei, e questo non la intristiva; anzi, le dava un senso di libertà da eventuali giudizi non richiesti.
    Sentiva le loro voci, si emozionava delle loro emozioni, positive o negative che fossero. Il vampiro dei pendolari e dei viaggiatori distratti. Rideva fra sé e sé quando pensava a questo. Si sentiva viva con le vite altrui, si sentiva viva grazie agli altri che le ricordavano la sua vita passata, anche se ormai il metro che la misurava le diceva chiaramente che i centimetri che aveva usato erano molti più di quelli che le restavano.
    Osservava tutti, compresi i viaggiatori più anziani di lei, e pensava al suo futuro, quando, con poca memoria e gambe stanche, forse si sarebbe persa in qualche stazione e si sarebbe salvata grazie all’aiuto di qualche giovane gentile nei paraggi. Ormai vedeva la sua fine così. Non che fosse troppo triste all’idea di scomparire del tutto in uno dei suoi viaggi: aveva lasciato che il tempo le scivolasse addosso, come la pioggia sui finestrini dei treni, senza opporre resistenza. Era stata contenta della sua vita: aveva avuto buoni affetti, relazioni sincere, un tetto sopra la testa e nessun problema economico significativo. Non si era mai sposata, anche se aveva vissuto una lunga convivenza, finita ormai da tempo per il naturale esaurirsi di un sentimento che non riusciva più a tenerla accesa. Il lungo ciclo del lavoro era da tempo alle sue spalle, e non ricordava più nemmeno chi fosse stata in quella dimensione fatta di orari e mansioni da rispettare.
    Amava la libertà, e aveva amato anche la sua solitudine, fatta di decisioni dell’ultimo minuto, pomeriggi al cinema e, ovviamente, tanti viaggi in treno. Un tempo seguace del buddismo, conosceva il significato profondo della ciclicità dell’esistenza, della futilità del possesso e dell’impermanenza delle cose. Attendeva, semplicemente, di arrivare alla fine del suo ciclo con serenità, senza scossoni.
    Stava osservando come l’insegna di una piccola stazione fosse ormai deturpata dal tempo, quando, quasi senza accorgersene, pensò a quanto si somigliassero e sorrise a quel pensiero.
    “Mi fa piacere che abbia pensieri felici,” disse una voce. Maria alzò lo sguardo e vide un uomo seduto di fronte a lei, di cui non aveva notato la presenza.
    Arrossì, spiazzata dal fatto di essere stata sorpresa nei suoi pensieri solitari. Non poté fare altro che rispondere con un sorriso a quell’uomo.
    “Sa, succede spesso a noi persone âgées,” disse, cercando di alleggerire l’imbarazzo, “ci perdiamo nei ricordi e sorridiamo indulgenti al nostro passato.”


    “Capisco perfettamente, succede anche a me,” rispose l’uomo, sorridendo. “Piacere, mi chiamo Alberto. Dove è diretta?”
    “Piacere, sono Maria.” Restò in silenzio per un attimo, indecisa se inventare una piccola innocente bugia per superare l’imbarazzo o dirgli la verità. “Conosce Khorakhanè?”
    “È di origine rom, Maria?”
    “No,” rispose lei ridendo, “mi riferivo alla canzone di Fabrizio De André. È un brano struggente che racconta lo stile di vita e l’assoluta libertà del popolo rom. Nel testo, i rom sono rappresentati come un popolo senza una vera casa, quindi totalmente liberi e privi di condizionamenti socio-economici. Da qui la metafora: la vita è come il viaggio di un rom, che parte senza sapere la meta e senza preoccuparsene, perché il fine diventa solo un dettaglio interessante, non lo scopo dell’esistenza umana. ‘Per la stessa ragione del viaggio: viaggiare…’”
    “Conosco quel popolo di ‘amanti del Corano’, le cui persecuzioni sono purtroppo ben note. Non conoscevo questa canzone, ma mi piacerebbe ascoltarla. Si occupa di musica, Maria?”
    Maria si sentì sempre più spiazzata. Non solo aveva perso all’improvviso il suo superpotere di invisibilità, ma qualcuno continuava a chiamarla per nome. Una cosa che non le capitava da tempo. Ma davvero quell’uomo era così interessato a ciò che aveva da dire? Mentre rifletteva, si accorse che una parte di sé, che credeva ormai perduta, stava riaffiorando. Provare di nuovo quella sensazione di attenzione non era nei suoi piani, e cercò di respingerla, combattendo tra pensieri razionali e quel sentimento che le dava pugni nella sua realtà. Doveva mantenere il controllo. Non poteva permettersi di lasciarsi andare. “Questo uomo è troppo bello,” pensò. “Figurati se mi considera davvero, almeno non in quel senso. Maria, non sei mai stata una donna bella. Hai avuto qualche corteggiatore, certo, ma erano anni che niente ti faceva battere il cuore. Non serve più, ormai, quel tipo di attenzione.” Eppure… il pensiero le martellava ancora nella mente: “Magari mi piace. Forse mi chiederà il numero, forse… No, Maria, non andare oltre. Sii razionale, goditi questa chiacchierata senza lasciarti trasportare.”
    “No, mi occupavo di contabilità un tempo,” rispose, “la musica mi piace, ma non sono molto esperta.” Poi si corresse mentalmente: Non sminuirti!
    “Ho alcune melodie che mi accompagnano da anni e alcune parole di poeti che mi sono rimaste dentro, diventando una guida per me.”
    Poi, con un sorriso nervoso, aggiunse: “Dio, sto parlando troppo? La sto annoiando? Non vorrei disturbarla… scusi.”


    “Ma no,” rispose lui, “non mi sta annoiando affatto, la prego, continui.”
    “‘Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare’. Forse le sembrerà strano che, per viaggiare, non intenda andare in luoghi lontani alla scoperta di usi, lingue e tradizioni diverse dalle nostre, o per vedere altri colori, forme e geometrie, naturali e non. Non che questo non abbia avuto importanza per me, ma ormai non me la sento più di partire per mete lontane. Con il tempo, ho imparato ad apprezzare i ritmi lenti e la comodità. Ma non rinuncio a osservare l’umanità. Si può viaggiare anche con un operaio che sale sul treno per andare a lavorare. I pendolari sono persone affascinanti, sa?”
    “No,” pensava Maria, stavolta lo sto proprio annoiando. “Lui è troppo gentile per dirlo, per sviare il discorso, per andare a sedersi in un altro vagone.”
    “Ah,” disse lui, “non ne ho alcun dubbio. D’altronde, anche io, per un periodo, ho fatto parte di quella fetta di umanità su rotaie. Ma la prego, Maria, continui, mi sto appassionando a ciò che descrive.”
    Madonna santa, pensava Maria, cercando di restare calma. Questo Alberto ha delle mani bellissime e un sorriso… Quanti anni avrà? Non sembra più giovane di me, ma neanche vecchio. Mi guarda con un’aria seduttiva, probabilmente rivolge questo tipo di sguardo a tutte le persone con cui parla, ma a me fa battere il cuore. E questo cuore, manco ricordavo dove fosse finito…
    “Poi ci sono i giovani e le famiglie, i miei soggetti preferiti,” continuò Maria, prendendo fiato. “Nei ragazzi si leggono i segni dell’amore, della delusione. I loro odori, ancora impregnati di ormoni in fermento, anche se non sempre sono piacevoli,” sorrise. “Poi ci sono gli studenti, le combriccole, i solitari persi nei loro mondi. Mi fanno una tenerezza incredibile. Sono gli stessi ragazzi che ho visto bambini, viaggiare con i genitori, tenuti in braccio o per mano nei corridoi dei treni prima di trovare finalmente un posto a sedere. Padri e madri amorevoli, figli che si lamentano o sono troppo entusiasti, bambini e ragazzi che mi ricordano chi ero.”
    “Sa, non ci avevo mai pensato a uno studio osservazionale sul treno,” disse Alberto ridendo. “È molto interessante. Quindi lei si occupa di antropologia sociale?”
    “No, si figuri,” rispose Maria, tentando di sdrammatizzare. “Sono solo una contabile, ormai in pensione, che cerca di passare il tempo osservando persone e paesaggi. Ho sempre pensato che un giorno avrei scritto un racconto o una raccolta di poesie, ma ancora non ho messo giù neanche una riga. Un po’ come nel viaggio, dove l’importante non è la meta, ma il viaggio stesso.


    Anche il mio ‘studio’ mi porta a esplorare l’intimo umano, arricchito dalla mia fantasia. Ma mi dica, lei di cosa si occupa, Alberto?”
    “Maria, dammi pure del tu, ti prego.” Fu impossibile per lei non arrossire e sorridere.
    “Mi occupavo di arredamento nautico,” rispose lui. “Ho iniziato da giovane, prima come skipper, poi sistemando alcune barche di amici. Mi sono lasciato prendere la mano e così ho avviato una piccola attività artigianale, che con il tempo è diventata un’impresa e ha occupato gran parte della mia vita, portandomi in giro per terra e per mare. Ora sono felicemente in pensione, sto tornando da un piccolo raduno di famiglia e vivo in una casa su una collina, vicino alla prossima stazione.”
    Maria si sentì quasi sopraffatta dalla sua voce calma e dalle parole che sembravano danzare nell’aria. Lui non era solo interessante, ma c’era qualcosa di misterioso in Alberto, qualcosa che lo rendeva ancora più affascinante.
    “Non vorrei sembrare invadente,” disse lui dopo una pausa, “ma visto che scenderai a breve, ti dispiacerebbe se ci scambiassimo i numeri di telefono? Mi piacerebbe riprendere questa conversazione, magari davanti a un caffè. Che ne dici?”
    “Certo, Alberto,” rispose Maria, cercando di contenere il tremolio improvviso della sua voce, ancora incredula per quell’inaspettato incontro.
    Si salutarono, e Maria proseguì il suo viaggio, per poi tornare indietro dalla stazione successiva. In quel momento, i suoi studi sull’umanità viaggiante sui treni si persero nei giochi della sua mente, che correvano su binari ben diversi. Il tempo, a volte, lasciava un sapore amaro, e per quanto si lotti, anche il più dolce non si può fermare. Ma in ogni movimento, anche nei più lenti, finché c’è vita, c’è ancora bellezza: non solo da ricordare, non solo da vedere riflessa negli altri, ma tutta da scoprire.
    Sognante, Maria rimase sospesa in quei pensieri, persa nel filo dei ricordi e delle emozioni che l’avevano attraversata, fino a che non si accorse, solo dopo un po’, di una voce che la chiamava con insistenza: “Signora? Signora? Mi scusi, signora, dovrei controllarle il biglietto.”
    Il richiamo la riportò brutalmente alla realtà, interrompendo quel mondo di pensieri, quel viaggio cullato dal treno, che l’aveva catapultata in un viaggio interiore che sembrava quasi un sogno. Con un leggero sospiro, Maria si risvegliò e, con il biglietto in mano, tornò a confrontarsi con il presente, consapevole che poteva ancora fantasticare non solo sulle vite degli altri, ma anche sulla sua, riscoprendosi ancora assetata di sorprese.

  • Me ne sto in silenzio, al buio.
    Non lascio penetrare l’aria calda. Il ventilatore è mio amico, l’unico, al momento, che mi sta davvero vicino.
    Scorro i flash delle notizie: una bipolarità mondiale che gioca sulle nostre teste.

    Si continua a sparare su chi ha fame.
    Dovrei pulire casa, darmi una sistemata, ma fa caldo. Il caldo mi uccide. Anche le zanzare non scherzano.
    Vorrei farmi risucchiare dal letto, annullarmi, come se davvero potessi annullare la mia ansia.
    Di cose da fare ne avrei. Ma manca, al fresco del corpo, anche quello della mente.

    Potrei giocare con la mia alter ego. Quella che, nelle sue fantasie, amava il formaggio, il sesso, l’essere superiore (di sicuro, a me). Quella che viveva in una bolla tutta sua, fatta di avventure e promiscuità.

    Sabrella, dove sei?
    Sei ancora una parte di me?

    Poco da fare, limonata e zanzare: io non mi annoierò.

    quindi … ↓

  • Ho conosciuto uno svizzero che non era puntuale e non faceva neanche il banchiere.
    Un francese che sapeva usare il bidet.
    Un israeliano che protestava contro Netanyahu e aveva un amico palestinese che non era un terrorista.

    Ho amici palermitani che lottano contro la mafia.
    Una sorella sarda e una abruzzese: entrambe vegane.
    Ho un fratello musulmano, non fa parte dell’Isis
    Ne ho un altro, buddista, è sempre incazzato nero

    Un colombiano ieri mi ha servito un cocktail, fra una bevuta e l’atra mi ha detto di non essere affiliato al cartello di Medellin.

    Io sono solo un gay che non vuole togliere diritti agli eterosessuali.

    Sono anche una lesbica, sono serena e mi depilo costantemente.

    Sono stata con un asiatico: ce l’aveva nella media

    Ho una figlia cubana che non sa ballare.
    Una zia afrodiscendente che non sa cantare.
    Un padre inglese che si fa la doccia. Ogni giorno. Anche due volte.
    Una madre fiorentina che pronuncia tutte le c e non fa la spiritosa.
    Una nonna rom che non ha mai rubato nemmeno una caramella.
    Un nonno marocchino che non ha mai smerciato droga. Neanche peperoncino, pur essendo calabrese.

    Ho un cugino russo che non beve.
    E un pastore tedesco… pacifista.

  • Un fiore sgraziato, così si sentiva.
    Le sue origini indios le avevano donato un corpo basso, compatto che sembrava forgiato in un unico blocco. E per quanto stesse attenta a ciò che mangiava, nulla sembrava scalfire quella fisicità ostinata, non conforme.
    E cosa poteva fare una donna come lei, in qualsiasi parte del mondo, se non la serva?
    Si era sposata presto, con il primo uomo che le aveva promesso di portarla via da quel villaggio dimenticato in cui era cresciuta, offrendole il sogno abbozzato di una vita migliore.
    Rimase incinta quasi subito, e si ritrovò sola a occuparsi di tutto, della casa, del figlio e anche di un marito ubriacone che le urlava addosso: “Ringrazia che ti ho sposata. Nessuno si sarebbe mai preso un bidone brutto come te!”
    E lei, Rosa, ci credeva di essere un bidone. Si vestiva perché si doveva vestire. Camminava come se volesse sparire. Parlava poco, solo lo stretto indispensabile. Chinava spesso la testa, ma lavorava duro. Su questo, nessuno poteva dirle nulla: era una maga delle pulizie, e le signore del lato chiaro della cittadina se la contendevano.
    Avrebbe anche potuto cavarsela, se non fosse che il marito si prendeva ogni centesimo per spenderlo in alcol e prostitute nei locali del lato oscuro.
    Aveva pensato più volte di andarsene con il suo bimbo. Ma quelli erano tempi difficili per una madre bianca single. Per una donna indioamericana, impossibili. Sarebbe stata ripudiata dalla famiglia, spinta ai margini della società.
    Teneva duro per il figlio. Per lui inventava mondi e avventure. Nelle loro storie fantastiche affrontavano intemperie e nemici, ma ne uscivano sempre vincitori.
    Cercava di non fargli mancare nulla. Se non poteva comprargli un gioco, glielo costruiva lei. E lui era un bambino felice, finché stavano insieme. Ma alla presenza del padre, s’incupiva. Aveva già imparato a riconoscere l’inquietudine e la puzza di alcol.
    Rosa resisteva, giorno dopo giorno. Si diceva: “Avanti ancora un po’. Un giorno lui sarà grande. Indipendente. E io avrò finito il mio lavoro.”
    Quando arrivò il tempo della scuola, Rosa lo accompagnava e lo riprendeva sempre a testa bassa, pronunciando a malapena un buongiorno. Il figlio cresceva bene, curioso e intelligente, e questo non passò inosservato a Dylan, l’insegnante di storia e geografia.
    Con lui i colloqui non erano mai brevi. Dylan faceva domande. Cercava il suo sguardo. La metteva a suo agio. La faceva sentire bella.
    Avete presente quella sensazione che si ha quando si è in cima a una montagna? Le gambe tremano, il vuoto ti sfida, ma il mondo ti appartiene. Così si sentiva Rosa con Dylan: fragile e potente allo stesso tempo.
    Era il suo Aymara. Una vetta mai osata sognare.
    E sì, divennero amanti.
    Grazie a lui, Rosa imparò a vedere il suo corpo per quello che era: forte, resistente, bellissimo. Con Dylan scoprì la sensualità, la gioia, e una parte di sé che nemmeno sapeva esistesse.
    Sapeva di non potersi innamorare. Lui aveva già avuto altre donne, e ne avrebbe avute ancora. Ma in quei brevi, intensi incontri, si sentiva viva.
    E parlavano. Dylan sapeva. E le diceva:
    “Un giorno finirà. Sarai libera. Avrai una vita nuova.”
    E lei cominciò a crederci. A immaginare un futuro non più scandito dalla rassegnazione, ma dalla possibilità.
    Quanto ci sarebbe voluto?
    “Non molto.”
    Ma Rosa sapeva che anni di attesa, anche pochi, potevano diventare un’eternità.
    Poi un giorno accadde.
    Il marito stava tornando da uno dei suoi soliti giri nel lato oscuro, quando un uomo – forse Dylan, ma nessuno lo vide bene – lo invitò a bere qualcosa. Si fermarono vicino alla strada. Forse parlarono. Forse no.
    Il tir sbucò all’improvviso. L’impatto fu violento.
    Fu detto che era stato un incidente.

    Rosa rimase vedova. Suo figlio, orfano di padre.

  • #UltimoGiornoDiGaza

    “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.”

    Questo è l’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata nel 1948 dalle Nazioni Unite dopo l’orrore della Seconda guerra mondiale.

    Oggi, ci troviamo dentro quella che papa Francesco ha definito una “guerra mondiale a pezzi”. I diritti umani vengono calpestati non solo nei territori in conflitto, ma anche in molti Paesi che si dichiarano democratici.

    A Gaza, la politica di occupazione israeliana – come un Golia che divora uno dei suoi stessi figli – sta portando alla distruzione. La risposta all’attacco del 7 ottobre 2023 ha innescato un’occupazione ormai totale della Striscia. Nelle ultime 24 ore, le bombe hanno ucciso 106 persone. Ai sopravvissuti viene negato il minimo necessario per vivere: acqua, cibo, cure, aiuti umanitari.

    E poi ci siamo noi. Chi può scrivere, al sicuro, da casa. Alcuni vengono accusati di essere amici dei terroristi solo perché parlano di Gaza. Altri dicono che è inutile parlarne.

    Restiamo umani Restiamo umani Restiamo umani

    In questi giorni, ho pensato a Rachel Corrie, una volontaria statunitense ragazza uccisa nel 2003 da un bulldozer mentre cercava di fermare la demolizione di case palestinesi a Rafah.
    Voglio ricordare le sue parole, scritte ai suoi cari il 7 febbraio 2003:

    “Ciao amici e famiglia e tutti gli altri. Sono in Palestina da due settimane e un’ora e non ho ancora parole per descrivere ciò che vedo. È difficilissimo pensare a cosa succede qui quando scrivo a chi amo negli Stati Uniti. È come aprire una porta virtuale sul lusso.
    Non so se molti bambini qui abbiano mai vissuto senza i buchi dei proiettili nei muri o le torri di un esercito che li osserva da vicino.
    Penso – anche se non ne sono sicura – che il più piccolo di loro capisca che la vita non è così ovunque.
    Un bambino di otto anni è stato ucciso da un carro armato israeliano due giorni prima che arrivassi. Molti bambini mi sussurrano il suo nome: Alì.”


    Per Ali, per Rachel, per l’umanità intera, fermiamo questo orrore.

  • Sarebbe davvero rivoluzionario se il nuovo Papa fosse una donna.
    Ancor di più se fosse una donna nera, transgender, grassa, lesbica, buddista, di origine israeliano-palestinese, con un nonno russo e uno ucraino.

    Sarebbe fantastico se sorseggiasse regolarmente infusi dalla teiera di Russell e dicesse alla sua fanbase e a tutti i religiosi di ogni fede:

    «Guardate che le religioni le hanno inventate persone come voi.
    Magari con mire di potere ben precise, o semplicemente ricche di fantasie un po’ perverse che, se si fossero date al BDSM, forse avrebbero fatto meno danni nei secoli dei secoli… Amen!

    Anzi no, che dico “Amen”?
    Vi sto perculando, ragazzi!
    Sul serio: nessun popolo eletto, nessuno che fa miracoli.
    Qualche Silvan, sì, ma anche lui ha i suoi trucchetti.
    Coltivate la cannabis, non l’odio.»

    Sarebbe davvero rivoluzionario se la Papessa nera predicasse l’amore libero e sciogliesse ogni dogma, liquidandolo come superstizione.

    Durerebbe meno di un gatto in tangenziale.
    La farebbero fuori subito.
    Perché gli uomini sono peggio dei vampiri assetati di sangue, anzi no, i vampiri almeno sono fighi.
    Gli uomini avidi fanno schifo allo schifo.
    Eppure anche loro hanno una fanbase. Purtroppo.

    Lo sapete anche voi, gli dèi invisibili anche se esistessero non sarebbero mai così spietati come chi storce il naso solo all’idea di una donna nera, grassa e lesbica.

    Cribbio! Una donna grassa non si può vedere!
    Dieta e palestra per Dio!

  • Egli aveva un infinito spazio a disposizione, ma si sentiva solo.
    Netflix non c’era e i social erano praticamente deserti.
    La routine quotidiana era insopportabile, e del resto come poteva esserci una routine, se non aveva ancora inventato nemmeno il giorno e la notte?
    Così, con il sottofondo di un’adeguata playlist, iniziò il suo lavoro:

    Poteva anche fermarsi lì, godersi la sua creazione, magari prendersi qualche giorno di ferie e andare al mare, visto che ormai lo aveva inventato.
    E invece no.
    Non gli bastava quel po’ po’ di paradiso terrestre: doveva per forza incasinare tutto con Adamo, Eva, il serpente e, già che c’era, anche il tempo delle mele .
    Di originale non aveva solo creato il mondo, ma anche il peccato.


    La favola di Adamo e Eva
    Dopo la cacciata dal Giardino dell’Eden, per una mela, tra l’altro, nemmeno biologica, Adamo ed Eva si ritrovarono a fare i conti con la morte, i dolori (cervicale inclusa) e complessi di colpa (Egli non aveva ancora inventato né gli psicologi, né lo Xanax o il Prozac ). In compenso diede a Eva il parto con dolore (sull’epidurale in seguito si apriranno diversi dibattiti) e a Adamo la puzza di chi lavora con sudore.
    Caino “o” Abele “e”
    Adamo ed Eva ebbero due figli: Caino e Abele.
    Caino offrì a Dio i frutti della terra, Abele i primi nati del gregge.
    Con chi procrearono, resta un mistero — ma si sa, le vie del Signore sono infinite e poco interessate alla logica genealogica.
    Dio apprezzò l’offerta di Abele e Caino, accecato dalla gelosia, lo fece fuori.
    Dio lo condannò a vagare come un ramingo, ma per proteggerlo dalla vendetta altrui gli mise addosso un segno (una specie di pass VIP per fuggiaschi).
    Caino poi si sposò, ebbe un figlio, fondò una città e generò una stirpe illustre: tra loro, inventori della musica e della lavorazione dei metalli. In pratica, se oggi abbiamo il Metal lo dobbiamo ai discendenti di Caino, grazie Caino!
    Il caso di Caino e Abele narra anche del primo omicidio della storia, episodio che vedrà nascere numerose trasmissioni televisive come Storie maledette e svariati podcast true crime.


    Dopo la morte di Abele, Eva generò Set, che a sua volta fu padre di Enos e capostipite di una linea genealogica destinata a sfociare nei patriarchi antidiluviani.
    Sì, perché poi Egli, non contento di aver mandato in malora il paradiso che aveva creato (per una mela, ripeto, per una mela!) – e dato che le birrerie ancora non esistevano – decise di movimentare un po’ i suoi noiosi sabati sera con qualche catastrofe, fu così che inventò il diluvio universale.
    Effetti speciali che i disaster movie americani se li sognano, anche se in seguito gli stessi americani combineranno dei disastri mondiali che neanche Dio avrebbe mai immaginato.
    I pochi che riuscirono a salvarsi lo fecero grazie ad imbarcazione in legno del capitano Noè
    NB in seguito i loro discendenti se la presero con le persone che cercavano sfidando le acque su altre imbarcazioni di legno .

    Partirà, la nave partirà
    Dove arriverà, questo non si sa
    Sarà come l’Arca di Noè
    Il cane, il gatto, io e te

    Navigarono a vista, di parecchia acqua, diversi giorni, infine la terra, finalmente asciutta, tornò abitabile e tutti gli esseri viventi salvati compresi i loro simpatici animaletti tornarono a ripopolare il pianeta blu.
    Egli, soddisfatto del suo lavoro, fece un patto con Noè e i suoi discendenti: niente più alluvioni globali, lo giuro su Dio! In segno di buona fede, ci mise pure un arcobaleno.
    Noè, dal canto suo, si mise subito a coltivare la vite e a produrre vino che, se non altro, aiutava a dimenticare i 40 giorni di navigazione con animali senza deodorante.
    Dio benedisse i figli di Noè: Sem, Cam e Jafet.
    Sem ebbe cinque figli: Elam, Assur, Arpacsad, Lud e Aram. Da questi discendono molte nazioni, tra cui i popoli semitici.
    Cam ebbe quattro figli: Cush, Mizraim, Phut e Canaan. Da questi discendono gli etiopi, gli egizi, alcune tribù africane e i cananei.
    Jafet ebbe molti figli, e i suoi discendenti sono considerati i popoli iafetici, che comprendono una vasta area geografica.
    In pratica siamo tutti discendenti di tre fratelli, che dati gli ampi spazi e la mancanza della crisi dell’edilizia all’epoca, si sparsero in varie parti del globo dando il via alle differenze etniche e sociali che ancora fanno il brutto e il brutto tempo oggi. Pareva brutto fermarsi a Caino e Abele?


    La torre di Babele

    A quel punto, con la terra di nuovo piena e la genealogia in piena espansione, l’umanità fece quello che fa sempre: cominciò a montarsela.
    Stufi di vivere sparsi e senza un centro commerciale decente, decisero di fondare una città.
    Ma non una qualunque.
    Una con una torre altissima, che toccasse il cielo, una torre così alta da arrivare fino all’altissimo, tanto per farsi notare, diventare famosi e partecipare a qualche reality show.
    Spoiler: non andò benissimo.
    Egli, che aveva un carattere piuttosto fumino, non voleva scocciatori e fu così che confuse le lingue.
    Come può venir fuori un buon progetto se l’ingegnere parla aramaico, l’architetto in proto-germanico e il manovale in dialetto pescarese?
    Fine del cantiere e inizio della diffusione degli ecomostri, opere pubbliche e private, spesso realizzate senza permessi, che sorgono e spesso, senza essere terminate, rimangono come un brufolo di un adolescente in odor di sesso alla sua prima uscita, nei nostri luoghi, comuni e non.
    E da allora l’umanità ebbe altri pretesti per azzuffarsi.

    Le differenze si ampliarono, le persone cominciarono a tirarsela, s’inventarono ogni pretesto per sentirsi un popolo migliore dell’altro. Alcuni si dissero che erano il popolo eletto da Dio, ma Egli non aveva ancora inventato neanche i seggi, figuriamoci.
    Nacquero altre religioni, le città-stato, i re, i faraoni, gli imperatori, i banchieri e i content creatore
    Si scoprì il fuoco, la ruota, la scrittura. Finalmente la birra. E poi le tasse.
    Le guerre, le colonizzazioni, la tratta degli schiavi, le rivoluzioni, i morti sul lavoro, lo sfruttamento a ogni livello. S’inventarono armi sempre più sofisticate, ben due guerre mondiali e numerose altre in seguito, giusto per poter sperimentare la ficaggine della tecnologia dedicata ai conflitti bellici.
    Adesso ci stiamo preparando per la terza.
    Ce la caveremo con uno zaino che ci soddisferà per almeno 72 ore.

    E così, mentre alcuni si davano da fare con invenzioni, scoperte e progressi, altri preferivano conquistare, saccheggiare, imporre la propria superiorità morale, economica e militare, tutto questo sotto l’occhio con triangolo intorno.
    Nacquero imperi che cadevano, e altri imperi che cadevano più tardi.
    Gli uni dicevano di portare la civiltà, ma si presentavano con cannoni, croci e bandiere colorate e non solo portarono la loro civiltà, ma alche i loro virus che, ancora più efficaci della loro tecnologia, sterminarono intere popolazioni.
    Quelli che sembravano più poveri offrivano oro, spezie, braccia forti e corpi da sfruttare, lo chiamarono scambio, talvolta libero mercato. Nel tempo cambiarono i nomi: da schiavi a colonizzati, da colonizzati a migranti, da migranti a clandestini, da clandestini a problema. Il problema di tutti i problemi, La facile soluzione dei regnanti, carne su cui far cadere ogni colpa, carne da dare in pasto ai cani rabbiosi. Ma il meccanismo era sempre lo stesso: qualcuno in cima, altri sotto, a reggere la piramide, anche quella non costruita da loro, ma a loro carico.
    Ci sono state alcune rivoluzioni, come quella francese, ma poi arrivò quella industriale e ciao ciao fraternité. Donne usate come forza lavoro a basso costo, bambini infilati sotto ai telai, uomini spremuti come limoni senza neanche un mojito.
    Poi fu la volta delle ideologie: comunismo, fascismo, nazismo, liberalismo.
    Tutti a promettere libertà, uguaglianza e progresso.

    Spoiler: non si mise benissimo.

    Due guerre mondiali, una bomba atomica, milioni di morti e, alla fine, una strana pace armata fatta di muri, filo spinato e sigle incomprensibili: ONU, NATO, FMI, G7, G20, BTP.

    Nel frattempo, continenti interi inquinati venivano svuotati per arricchire gli scaffali degli altri.
    I discendenti di Adamo e Eva si presero l’Africa, si usò l’Asia, si comprò l’America Latina.
    Si disse “globalizzazione”, ma si intendeva “schiavitù 4.0”.
    Fabbriche in Bangladesh, miniere in Congo, server in Irlanda, consumatori ovunque, ma soprattutto in Occidente.
    Ogni smartphone conteneva un pezzettino di miseria altrui e un’opinione di troppo.
    Si visse con la paura: dei neri, dei gialli, dei rossi, dei gay, delle donne, dei poveri, dei virus, delle idee. Si alzarono muri, si chiusero porti, si aprirono centri commerciali.
    Si disse “aiutiamoli a casa loro”, dimenticandosi che casa loro era stata rasa al suolo per costruire la nostra.
    E ora, eccoci qui.

    Con un pianeta al collasso, un’intelligenza artificiale più umana di molti umani, una società che scrolla invece di pensare, una libertà venduta a pacchetti da 9,99 al mese.
    Con guerre che sembrano serie TV, razzismi che si travestono da ironia, bambini in mare e adulti che guardano da terra senza bagnarsi un piede.

    E Dio?
    Forse è proprio come uno di noi e sta ancora lì, a sfogliare Spotify, sperando che qualcuno metta in playlist un brano giusto.
    Magari uno dei Led Zeppelin
    Magari All my love.
    Magari preferiva la trap.


    Storia di un impiegato

    Ma se fosse toccato lo stesso destino di Egli a un semplice essere, senza poteri speciali?
    Mettiamo che, in mezzo al niente, capiti un impiegato. Tipo Mario Rossi. Cinquantenne, scapolo, con la passione per il biliardo (sì, ammettendo che il biliardo sia sempre esistito anche nel brodo primordiale).
    L’impiegato Rossi, prima di osservare il maggio francese, era stato per molto tempo solo. Ovviamente si annoiava, poiché giocare a biliardo da soli non gratifica un granché. Decise allora di ammazzare il tempo inventandosi qualcosa. Ma c’era davvero tutto da inventare, e dato che non aveva poteri speciali, gli toccò giocare con la fantasia.
    Grazie alla sua mente s’inventò una compagna, che chiamò Rosa, con grosse, enormi tette e, già che c’era, anche un bel culo. Dopodiché scoprì l’autoerotismo. Preso dalla sua ludica attività, non si accorse neanche dell’esplosione del Big Bang. E mentre l’universo si espandeva, a lui veniva in mente solo: “enlarge your penis”.
    Mario si ritrovò, inconsapevolmente, ad osservare la formazione dei pianeti. E, dato che stava sulla Terra, quella del nostro mondo, vide crosta, vulcani, mari, e poi piccole forme di vita, che si svilupparono via via per diventare sempre più complesse.
    Le sue prime compagne reali non erano belle come Rosa, ma sotto tutti quei peli, le tette le avevano.
    Poi vide i suoi simili. Sempre più simili a lui.
    E poi, niente. A qualcuno, dopo aver idolatrato il sole, l’acqua, il vento e la luna, venne in mente l’idea d’ideare un grande influencer. E da lì la storia fu più o meno la stessa.
    E Mario, direte voi, miei piccoli lettori, che fine fece?
    Sta sempre in mezzo a noi. Ogni tanto ha moti di ribellione, ma poi torna quieto al suo biliardo. Continua a giocare da solo, perché non sopporta più le battute sessiste e razziste degli amici al bar.
    Se solo avesse avuto, come Egli, grandi poteri la storia sarebbe stata differente?
    Non credo. Guardate Trump.