di Sabrina Ancarola Faccio cose perché sono inquieta, scrivo perché, dare una forma alla mia inquietudine, a volte è divertente. Sono cantante, presentatrice, scrittrice e autrice di pièce teatrali e cene con delitto. Non so cosa mi riesce peggio, ma mi ostino perché mi piace ballare pur non sapendo affatto ballare.
E tu cerchi ancora amore? Sveglia, bella! Oddio, “bella” non lo sei mai stata, non hai mai dissetato nessuno alla tua fonte ormai secca. L’amore è l’illusione del mare, di giochi sulla sabbia, di vetri colorati modellati dall’acqua, falsi smeraldi in un mondo dominato da veri brillanti che si sono fatti strada, dal carbonio ad ammassi cellulari, divenuti diamanti o carne.
Era bellissima. Ricordo come se fosse passato solo un giorno da quando ci siamo incontrati per la prima volta. Io, giovane e squattrinato studente di medicina, fui catturato immediatamente dal suo splendido sorriso, e in quell’istante decisi che sarebbe diventata mia. Eravamo al mare, il sole splendeva sulla sua pelle umida, adornata da piccole perle d’acqua che riflettevano la luce. Non avevo mai visto niente di più perfetto al mondo. Il suo profumo, i suoi capelli lucenti… quante volte li ho accarezzati, quante volte ho posseduto il suo corpo, anche quando diceva di non volermi. Ma io sapevo che lo diceva solo per provocarmi, per farmi desiderarla ancora di più. Abbiamo condiviso tanto: lo studio, soprattutto il mio, perché dovevo laurearmi, il lavoro, i figli, la carriera che mi ha portato a diventare un luminare della scienza medica. Ne abbiamo viste insieme, di cose, anche se ogni tanto si arrabbiava, mi accusava di tradirla. Non capiva che il sesso con altre era solo uno sfogo, qualcosa di insignificante. Lei era l’unica, l’unica davvero mia. Siamo stati felici per tanto tempo, sì, anche se a volte si lamentava. Voleva più libertà, ma io la amavo troppo per lasciarla andare, per permetterle di vagare da sola in un mondo così oscuro, pieno di uomini pronti ad approfittarsi di lei. Era bellissima anche quel giorno al mare, quando mi disse che voleva andarsene. Le chiesi di pensarci, come avrei potuto vivere senza di lei? L’ho pregata, l’ho implorata di abbracciarmi, e quando lo ha fatto, l’ho stretta forte, così forte da non permetterle mai più di andare via.
La guerra è iniziata. L’invasione non si ferma. Io sono cresciuto con valori solidi, tramandati di generazione in generazione. Il mio bisnonno, Benito Panicucci, era un fascista, e questo, per noi, è un onore. La nostra è una missione: difendere la verità e proteggere il futuro del Paese. L’invasione non è solo quella di quei disgraziati che non sono riusciti a morire in mare. È un attacco continuo. Non sono razzista, certo che no, ma la presenza di certi tipi sullo schermo disturba l’innocenza dei bambini. Chi li prepara, psicologicamente, a incontrare un “uomo nero” fuori dalle favole? Ormai, sono ovunque. Non i tipi “chiari” che vanno bene, ma quelli scuri, che rubano il lavoro. Sono loro a rendere difficile trovare posti da venditore ambulante o da raccoglitore di pomodori; lavori che, certo, nessuno di noi farebbe mai, ma loro, semplicemente, non dovrebbero farli. Ci sarà pure un pantone giusto di epidermide giusta anche per quei ruoli. La nostra resistenza all’invasione è fondamentale. Non sono solo io a pensarla così: siamo in tanti, e facciamo sentire la nostra voce, screditando ogni azienda che osa usare un nero come immagine pubblicitaria o rappresentare persone “diverse” nelle fiction. Le ciccione? Neanche parlarne. Se una è nera e pure sovrappeso, se l’è proprio cercata. La nostra è una battaglia per mantenere le tradizioni: che nessuno si azzardi a sostituire il presepe con il kebab! Guai a togliere dai luoghi pubblici l’immagine di un uomo crocifisso: rappresenta il sacrificio su cui si fonda la nostra civiltà. E poi ci sono le donne. Sostengono di voler essere libere. Ma io dico: dove sarebbero oggi senza il nostro aiuto? Il loro posto, come è scritto, è di partorire con dolore. Arroganti, insistono per essere rappresentate, ma quando lo sono, si offendono se non riconosciamo i limiti del loro ruolo. Ci sono troppi invasori: donne troppo libere, uomini incerti su cosa siano. È un attacco alla nostra identità. Non parliamo del pericolo gender. L’uomo che nasce uomo è uomo, la donna che nasce donna è donna. Gli uomini che amano gli uomini sono un abominio; le donne che amano le donne, le tollero solo se sono belle e si fanno vedere. Io mi batto per il rispetto delle tradizioni, come quella della famiglia naturale. Certo, ho tre figli da tre donne diverse, ma è diverso. La mia lotta è per l’autenticità. Sono il perfetto rappresentante della gente perché parlo alla pancia, difendo valori sacri. La coerenza, in fondo, è sopravvalutata. Tornando al gender e a quei finocchi, specie se palestrati e con quei culi sodi… ecco, a me turbano terribilmente! Ma la grande battaglia è contro i migranti. Diciamocelo, la minaccia del diverso funziona sempre: gli altri sono il bersaglio facile delle nostre frustrazioni, e quando qualcuno come me riesce a riunire le frustrazioni dei tanti, il successo è assicurato. C’è chi mi dipinge come un uomo intollerante. Non lo sono su tutto. Riaprirei le case di tolleranza, ad esempio. E poi, su certi temi, cerco di essere aperto almeno nel mio intimo. Sulle droghe, ad esempio, ho provato un po’ di cocaina, ma è roba buona, quella per “tenersi in forma”, mica come le droghe che i poveracci vorrebbero liberalizzare. Lo ammetto, non è facile essere il portavoce del popolo e al tempo stesso mostrare di essere un uomo comune. La gente comincia ad amarmi sempre di più; vedo quanti si stringono a me alle sagre che frequento, feste dove ci sono solo prodotti italiani. È fra un culatello e una ficattola che nutro la mia anima patriottica, in un’armonia perfetta di carne e canti tradizionali. Sono l’opinion leader perfetto per questi tempi, con la capacità di adattarmi a ogni situazione, malleabile ma saldo sui principi, duro ma capace di rappresentare con elasticità le paure della gente. Sono qui per ogni battaglia, per ogni momento in cui la nazione ha bisogno di una guida, di un vero rappresentante della nostra comunità. E ora scusatemi, devo controllare se ci sono nuovi video nella categoria “black busty” su YouPorn. Stasera sì che ci si diverte!
Fiduciosa nel futuro, pensavi di costruire la tua vita con obiettivi semplici e adesso ti vedo, segnata dal tempo, che metti i soldi da parte aspettando la pensione. Libera da orari definiti, pensi davvero che la tua vita migliorerà? I soldati migliori vanno avanti col fucile in mano, non si riparano dietro sacchi di sabbia.
Stare in trincea, combattere: vince chi rischia, oppure muore chi rischia. Chi non ha mai rischiato è già morto.
L’autobus è sempre affollato, mai una volta che arrivi puntuale. Oggi, poi, l’autista sembra avere i riflessi di un bradipo in coma. E quel vigile? Non vede la coda infinita che si sta formando? Non sente i clacson? Mi sembra che nessuno senta più niente, e chissà, forse chi vende dispositivi acustici si sta leccando i baffi alle nostre spalle. Sono stanca, non mi sono ancora ripresa dalla spesa di ieri: una vera impresa. Non riesco più a prendere i prodotti sugli scaffali troppo in alto, né quelli in basso. Mi limito a prendere solo ciò che trovo a portata di mano: rigatoni, semolino, tonno, pelati. Mi sono quasi rassegnata a mangiare sempre le stesse cose. Non mi avvicino nemmeno più al reparto del fresco: l’ultima volta che l’ho fatto, mi sono presa una broncopolmonite. Ho passato giorni terribili e ci ho messo mesi per rimettermi in sesto. Ricordo la corsa in ospedale: ci mancava poco che fossi io a dover aiutare il barelliere a salire sull’ambulanza, tanto male ero ridotto. L’autista mezzo cieco, l’infermiera con le mani tremanti come se avesse il Parkinson, e il medico che sembrava sul punto di addormentarsi. Ma ne sono uscita, più indenne di loro. Per fortuna i pannoloni li tengono nello scaffale intermedio, e ho ancora un bel po’ di buoni spesa da sfruttare. A giugno andrò al mare. Aspetto queste ferie da una vita. Spero solo che l’albergo non sia troppo lontano dalla spiaggia e che ci sia una passerella per accedervi col deambulatore. Ho sempre amato il mare, ma ora non mi fido più a buttarmi in acqua. Le forze mi stanno abbandonando, e i bagnini spesso sono messi peggio di me. Posso ancora considerarmi privilegiata: ho un lavoro stabile e, sebbene con l’età sia sempre più difficile mantenere il ritmo, non corro grossi rischi. Non come Mario, mio vecchio compagno di scuola, che lavorava nell’edilizia come lavoratore in prestito. Diceva di farcela, ma è caduto da una scala di dieci metri, e quella è stata la fine. Poteva restare a casa, ma aveva dilapidato i suoi risparmi, era rimasto l’unico a mantenere la famiglia, figli e nipoti inclusi.
Non reggo più i turni, non ricordo più cosa devo fare, e a volte non ricordo nemmeno chi sono. L’altro giorno ho preso l’autobus sbagliato e ho vagato per ore, in preda all’angoscia. Volevo chiedere aiuto, ma incontravo solo vecchi con l’Alzheimer. I pochi giovani che ho visto per strada erano mendicanti, ridotti in uno stato pietoso. Forse perché nessuno di loro ha un lavoro, né una speranza di trovarne uno. Fino a quando ci saremo noi a remare la barca, non ci sarà spazio per le nuove generazioni. Ho dato a un paio di ragazzi qualche euro e la mia porzione di semolino per farmi accompagnare al lavoro. Quando finalmente sono arrivata, il mio capo mi ha fatto avere un provvedimento disciplinare per il ritardo. Se solo mi ricordassi il numero del sindacato… se solo mi ricordassi a quale sindacato sono iscritta… Ma sono iscritta a un sindacato? Non ricordo. So solo che anche oggi, 6 dicembre 2044, sto andando al lavoro, e che l’Italia non è un paese per vecchi. Ma neanche per giovani.
Davvero credi sia la ribellione allo status quo che farà avanzare la razza umana? Adoro quando fai la scema, ma tu sei scema e quindi m’incazzo. Non adeguarsi al sistema non è un atto rivoluzionario, è semplicemente debolezza, se la mente questo non riesce a capirlo la carne lo sa bene.
La vita è un giro di moneta, testa o croce, tu davvero hai deciso di essere croce?
Guarda, guarda chi sopravvive, impara da loro.
Genuinità, semplicità, spontaneità: queste qualità mi hanno fatto diventare un cavallo di razza sul web.
Ho frotte di follower che ammirano il mio stile di vita e cercano di imitarlo, ma dubito che si avvicineranno mai al gregge che ho conquistato. Facevo l’impiegata in banca, ma quella vita mi stava stretta: orari da rispettare, burocrazia e finti sorrisi per clienti e dirigenti noiosi. Io sono di più, mi ripetevo, e ne ho dato prova attraverso la vita che mi sono costruita online.
Il sorriso, signori miei, è stata la mia arma vincente. Non avendo grosse tette e non volendomi sottoporre a interventi per aumentarle, inizialmente avevo optato per altre strategie. Mio padre aveva un orto, e oltre alle fave, ho colto l’occasione perfetta per mostrarmi al pubblico con un viso curato, un outfit studiato e una zappa in mano.
Il clan degli ortisti vicini è stato un altro gradino della mia scalata verso il successo. Diciamocelo: quei vecchi con le mani callose e le unghie piene di terriccio mi stavano decisamente sui nervi, ma girare video con loro mentre dispensavano consigli su colture e semine è stato uno step fondamentale.
Dalla zucchina appena colta, coltivata – o almeno così dicevo – senza pesticidi, come la natura comanda, al piatto pronto è stato un attimo. Per fortuna sono brava a cavarmela con il microonde e con le decorazioni. Qualcuno potrebbe dire: “Potevi cucinare davvero.” Ma figurati se una come me si mette a spadellare sul serio: quella è roba da poveracce. Io facevo finta, sempre sorridendo, simulavo di seguire i vari passaggi fino a mostrare il piatto finito. Certo, la casa puzzava un po’ di cipolle bruciate, ma chi se ne frega, mica era casa mia.
Quando la cucina è diventata monotona, sono passata ai rimedi naturali per la bellezza. È così che ho lanciato la mia linea cosmetica Green&Young. Lo ammetto, inizialmente ho faticato. Ma le mie foto filtrate e le creme – che compravo da un grossista cinese e che, per la cronaca, non ho mai usato perché di quella roba non mi fido – con la giusta etichetta avevano iniziato a vendere
A un certo punto, però, mi sono dovuta affidare davvero al chirurgo estetico, perché le magiche luci che spianavano le mie imperfezioni nei video e nelle foto potevano risultare fallimentari qualora avessi incontrato i miei adepti dal vivo. Nonostante il dolore per i trattamenti, ne è valsa la pena. Le donne impazzivano per le mie creme che, di naturale, avevano solo il nome. Tant’è: la gente è scema e come spesso ripete un’ex venditrice di successo, “va inculata.”
Ogni giorno mi sveglio con capelli scarruffati e occhiaie, indossando tremendi pigiami che però mi tengono al caldo, e preparo la scenografia: rifaccio il letto che deve essere tiratissimo, sistemo i guanciali, mi trucco, mi sistemo i capelli, posiziono l’iPhone e poi faccio partire la live. Mi rinfilo nel letto e, bella come il sole, saluto tutti e li porto con me a fare una colazione sana con il succo delle arance del mio orto, i pancake appena fatti, il miele delle mie api e una sanissima tisana. Tutto ovviamente preparato prima. Poi, finito il video, mi apro il barattolo di Nutella, affondo il cucchiaio e godo nel vedere i numeri delle mie visualizzazioni salire. Che godimento!
Dalla cucina ai cosmetici, ho aperto un brand tutto mio, e poi libri, interviste, show televisivi. Per me è stato un gioco da ragazzi arrivare dove molti scalpitano investendo e perdendo centinaia di migliaia di euro, come quel cretino di Roberto Pollini che si crede tanto simpatico con i suoi filmetti ridicoli. Non ho dovuto neanche mostrare le tette su OnlyFans e ho smesso pure di vendere le mie mutandine usate ai vari maiali sul web. Fra l’altro, io i maiali, come le capre, i polli e tutte le bestie delle fattorie, non li sopporto proprio.
Un po’, lo confesso, ho il terrore che tutto questo finisca, ma da brava ex bancaria sono riuscita a fare buoni investimenti e almeno, dal punto di vista economico, il futuro dal punto di vista dei soldi non mi fa paura.
La location è quell’odiosa casa in campagna dei miei, dove spesso arriva la puzza dei diserbanti e degli allevamenti intensivi, ma poi torno nel mio vero nido: un super attico nel quartiere CityLife.
Eppure, mi chiedo se, mentre preparo ogni scena e indosso il mio sorriso migliore, sto davvero recitando un ruolo, o se ormai questo ruolo è l’unica cosa che so fare, ma poi mi dico che stupita, tutti, quando accendono lo smartphone e si riprendono nei loro gesti quotidiani, mostrano la versione migliore di sé stessi. Perché non dovrei farlo io?
Attilio appariva in quel locale del centro lasciando sempre un segno, come se la sua sola presenza bastasse a cambiare l’ambiente. Con quel fisico possente e un’eleganza tutta sua, non si poteva non notarlo, anche tra i colori sgargianti del bistrot nel cuore della città. Sempre sorridente, sempre cordiale, aveva colpito il cuore di quella stramba cameriera, un po’ attempata e un po’ troppo piena di entusiasmi. Si sa, con l’età le pulsioni cambiano: per alcuni si placano, per altri si fanno ancora più urgenti. L’amore? “Non è per tutti,” disse una volta la cameriera. “Può essere una discreta botta di culo o un evento catastrofico.” Cameriera che, per convenzione, chiameremo Maria: un nome che sa di sogni e malinconie, che riempie un intero mondo interiore. Parlare con lei era un piacere, a patto di non essere allergici alla sua incontenibilità. Attilio e Maria si incontravano lì. Mai fuori. Solo in quella sfera di luci, tra turisti e clienti abituali, che spaziavano da professionisti rinomati ad amanti dell’alcol, fino a devote del Signore. Erano un po’ come le navi cantate da Ivan, quelle che navigano in senso contrario, in mezzo al mare. Lui il Libeccio, lei il Maestrale. Sempre venti, sì, ma non è uguale.
Fra loro non era mai accaduto niente di più di qualche confidenza, ma Maria, che amava soprattutto immaginare le vite degli altri, si era costruita un discreto film su Attilio. Un film in cui, un giorno, lui l’avrebbe guardata negli occhi e le avrebbe detto che le piaceva, per poi cedere al destino, come se una catastrofe impedisse a ogni lieto finale di concretizzarsi. Maria sognava, sì, ma non osava mai osare i lieti finali. Lui, si diceva Maria, era sicuramente qualche spanna sopra e non solo in altezza. Tra loro c’era una distanza sociale, ma soprattutto quel mistero emotivo che lei non riusciva a ignorare: un “qualcosa” d’indefinito, che manifestarlo manco a parlarne. Troppi limiti, i suoi. Attilio, che era un uomo di mondo, ne era consapevole e viveva tutto con più disinvoltura. Maria, invece, aveva mollato le cime da un pezzo e, tutto sommato, ci viveva bene, in quel porto quieto. Ma non ci si può più difendere da una cosa normale, come quella di amare. Fu questa recente conoscenza a far tornare, dopo tanto tempo, Maria a desiderare, pur essendo convinta, sbagliandosi, che nessuno meritasse il suo stupido cuore. E lei, sull’amore, da sempre ci ricamava su. Si sentiva troppo fuori dalle righe per una realtà in cui il sesso, motore delle passioni, non le interessava da tempo. Preferiva sentirsi il pittore, non il quadro. Inventava mille scuse, soprattutto con sé stessa, attornandosi di limiti. Ma quel suo cuore batteva a tempo troppo veloce. Diceva che era per la menopausa, quella stessa scusa con cui mascherava il calore che, inconsapevolmente, la infiammava. Come sarebbe bello ritrovarsi senza questi benedetti limiti!
Io, naturalmente, tifavo per Maria, anche quando vedevo Attilio, sempre in compagnia diversa, circondato da giovani uomini con cui avrebbe concluso la serata dopo una sana bevuta. Bevuta servita ovviamente, da Maria.
Forza Maria, si è vivi finché si è in vita; magari una volta ti ritroverai a concludere la serata in buona compagnia, con uno o due uomini capaci di farti dimenticare tutti quei limiti.
Poche ore fa, Trump ha annunciato l’introduzione di dazi paese per paese, incluso il territorio australiano delle isole Heard e McDonald, abitate solo da pinguini. (Che gliel’avranno fatto mai, ‘sti pinguini?) In un colpo solo, ha minacciato dazi al 500% per chi fa affari con la Russia, lanciato minacce di bombardare l’Iran e prospettato piani militari anche per la Groenlandia. Ci aspetta un periodo storico particolarmente interessante, anche se, su questo punto di vista, avrei preferito una buona dose di noia.
Dal colonialismo al capitalismo più spregiudicato, il salto è stato breve, come uno sbattere d’ali di farfalla nella storia dell’umanità. Lezioni dalla storia? Non pervenute. Preoccupazione per la salute del pianeta, per la vita delle future generazioni? Idem.
In compenso, la propaganda in rete, di cui mi preoccupo da diversi anni (vedi il mio articolo Libertà d’espressione e istigazione all’odio, scritto per il sito di Francesco Russo nel dicembre 2012), ha vinto. Ha vinto perché è stata lasciata libera di colpire le pance, ed è riuscita a diffondersi come le spore di un fungo, come insegna Hannah Arendt. L’odio, essendo superficiale, si sparge ovunque.
Hanno vinto le “voci libere” che attaccavano chi si preoccupava di una possibile deriva pericolosa, e questa deriva è stata molto più pericolosa di quanto potessimo immaginare. Non solo Trump, ma molti esponenti politici mondiali, compresi i nostri “caserecci”, sono riusciti nell’intento di far credere che le disgrazie degli uomini e delle donne bianchi occidentali siano causate dai più poveri del pianeta.
Internet, che ammetto ingenuamente pensavo avesse unito le persone con intenti migliori, è diventata il megafono, tramite i social network, di una propaganda al servizio del nazionalismo, del capitalismo e del fascismo.
Preoccupante è anche la politica internazionale, che sostiene l’armamento, le guerre e che, non ascoltando le lezioni di Alessandro Barbero, sembra voler mettersi contro la Russia. Per non parlare delle guerre sparse in varie zone del globo, mai così numerose dal tempo della Seconda Guerra Mondiale. Il diritto internazionale è praticamente fioco di fronte ai crimini di guerra, e alcuni rappresentanti di governi, amici dei criminali, sono anche quelli che sostengono presidenti o torturatori di migranti e detenuti.
Questa propaganda ha dato voce agli esaltati, e ha messo a capo dei governi individui altrettanto pericolosi.
Make America Great Again!
Trump celebra i dazi come una “liberazione”. Una liberazione? Gli statunitensi, che non chiamo “americani” perché l’America è un grande continente con enormi diversità geofisiche e culturali, hanno depredato risorse naturali e schiacciato vite umane. Gli Stati Uniti sono colpevoli di aver sostenuto dittature latinoamericane, che sono costate migliaia di vite a chi sognava un futuro più equo per tutti. Sono colpevoli anche di gravi mancanze al loro interno, come la sanità pubblica, l’apartheid, la violazione dei diritti umani, e ora anche la propaganda e le discriminazioni contro le persone LGBTQIA+ e altre minoranze.
Non sono gli Stati Uniti a dover essere liberi, ma il resto del mondo avrebbe diritto di liberarsi dalla politica marcia di questi predatori.
Capitalismo e le sue implicazioni globali
Il capitalismo statunitense ha avuto impatti significativi a livello globale, che non sempre sono stati positivi. Sebbene in alcuni casi gli investimenti esteri e la presenza di multinazionali abbiano portato benefici, come la creazione di posti di lavoro e il trasferimento di tecnologia, non mancano esempi di pratiche devastanti per altri paesi. È importante notare che gli effetti di questo modello economico non sono omogenei e variano a seconda del paese, del settore e del periodo storico. Di seguito vengono esplorati alcuni dei suoi effetti più problematici, con link di riferimento per approfondimenti.
Sfruttamento delle risorse naturali e degrado ambientale
“Banana Republics” in America Centrale: Nel XX secolo, compagnie statunitensi come la United Fruit Company (ora Chiquita Brands International) hanno esercitato un controllo quasi totale sulle economie di paesi come Honduras, Guatemala e Costa Rica, sfruttando intensivamente le terre per la coltivazione di banane, spesso a discapito delle coltivazioni locali e con gravi danni ambientali.
Estrazione di petrolio in Ecuador e Nigeria: Compagnie petrolifere statunitensi come Chevron ed ExxonMobil sono state accusate di danni ambientali in paesi come l’Ecuador e la Nigeria, contaminando corsi d’acqua e distruggendo ecosistemi locali.
Estrazione mineraria nella Repubblica Democratica del Congo: La domanda globale di minerali, come il cobalto, ha portato a un’intensa attività mineraria in RDC, con gravi conseguenze per le comunità locali, inclusi sfruttamento del lavoro, condizioni di lavoro pericolose e conflitti.
Smaltimento di rifiuti elettronici in paesi in via di sviluppo: Paesi come Ghana, Nigeria e India sono diventati discariche per i rifiuti elettronici, contaminando l’ambiente con materiali tossici come piombo e mercurio.
Sfruttamento del lavoro e condizioni di lavoro precarie
Industria tessile in Bangladesh e altri paesi asiatici: Molte multinazionali statunitensi esternalizzano la produzione in paesi come il Bangladesh e l’India, spesso a scapito dei diritti dei lavoratori e delle normative di sicurezza, come evidenziato dal crollo del Rana Plaza nel 2013.
“Race to the bottom” e dumping sociale: La competizione globale spinge i paesi in via di sviluppo a offrire condizioni favorevoli per le aziende, spesso a discapito dei diritti dei lavoratori e delle normative ambientali.
Interferenze politiche ed economiche
Sostegno a regimi autoritari: Gli Stati Uniti hanno spesso sostenuto regimi autoritari in cambio di accesso a risorse naturali, contribuendo alla repressione dei diritti umani e ostacolando lo sviluppo democratico.
Imposizione di politiche neoliberiste: Attraverso istituzioni come il FMI e la Banca Mondiale, gli Stati Uniti hanno promosso politiche neoliberiste che hanno aumentato la disuguaglianza e destabilizzato l’economia in molti paesi.
Accordi commerciali iniqui: Alcuni accordi commerciali promossi dagli Stati Uniti hanno favorito gli interessi delle multinazionali a scapito delle economie locali e dei piccoli produttori.
Crisi finanziarie e instabilità economica
Effetti della crisi finanziaria del 2008: La crisi finanziaria iniziata negli Stati Uniti ha avuto ripercussioni globali, causando recessioni e aumento della povertà in molti paesi.
Per maggiori informazioni:
Banana Republics:
United Fruit Company (Chiquita): Puoi trovare informazioni sulla storia e l’impatto di questa compagnia su diverse fonti storiche e accademiche. Cerca “United Fruit Company history”, “Banana Republics Central America”.
Documentario “Bitter Bananas”: Un documentario che esplora le pratiche della United Fruit Company.
Estrazione di petrolio in Ecuador e Nigeria:
Caso Chevron in Ecuador:
Amazon Watch: amazonwatch.org (Organizzazione che si occupa della difesa dell’Amazzonia e delle comunità indigene, con molta documentazione sul caso Chevron).
Articoli di giornale e rapporti di organizzazioni per i diritti umani: Cerca “Chevron Ecuador lawsuit”, “Texaco Ecuador pollution”.
Inquinamento da petrolio in Nigeria (Delta del Niger):
Human Rights Watch: hrw.org/africa/nigeria (Cerca articoli sull’inquinamento da petrolio).
Estrazione mineraria nella Repubblica Democratica del Congo:
Rapporti di organizzazioni come Human Rights Watch e Amnesty International: Cerca “cobalt mining DRC human rights”, “child labor Congo mines”.
Articoli di giornale e inchieste: Molte testate giornalistiche internazionali hanno pubblicato inchieste sulle condizioni nelle miniere di cobalto.
Smaltimento di rifiuti elettronici:
Basel Action Network (BAN): ban.org (Organizzazione che si occupa del problema dei rifiuti tossici e del loro traffico internazionale).
Documentari come “The Story of Electronics”: Esplorano il ciclo di vita dei prodotti elettronici e il problema dei rifiuti.
Sfruttamento del lavoro e condizioni di lavoro precarie
Industria tessile in Bangladesh:
Clean Clothes Campaign: cleanclothes.org (Organizzazione che lavora per migliorare le condizioni di lavoro nell’industria dell’abbigliamento globale).
Articoli e rapporti sul crollo del Rana Plaza: Cerca “Rana Plaza collapse”, “Bangladesh garment factory safety”.
“Race to the bottom” e dumping sociale:
Articoli accademici e rapporti di organizzazioni internazionali (ILO, OCSE): Cerca “race to the bottom globalization”, “social dumping international trade”.
Interferenze politiche ed economiche
Sostegno a regimi autoritari:
Documenti storici declassificati (quando disponibili): Cerca archivi nazionali statunitensi e documenti relativi alla politica estera in specifici paesi.
Libri e analisi di storici e politologi: Ricerca su interventi statunitensi in America Latina, Medio Oriente, ecc.
Imposizione di politiche neoliberiste:
Critiche alle politiche del FMI e della Banca Mondiale: Cerca “IMF structural adjustment programs criticism”, “World Bank neoliberal policies impact”.
Libri come The Shock Doctrine di Naomi Klein: Analizzano l’impatto delle politiche neoliberiste in diversi contesti.
Accordi commerciali iniqui:
Analisi di organizzazioni non governative e centri di ricerca: Cerca “criticism of NAFTA”, “impact of free trade agreements on developing countries”.
Crisi finanziarie e instabilità economica
Effetti della crisi finanziaria del 2008:
Rapporti di istituzioni finanziarie internazionali (FMI, Banca Mondiale, BIS): Analizzano le cause e le conseguenze della crisi globale.
Articoli di giornale e analisi economiche: Cerca “global impact of 2008 financial crisis”, “contagion of financial crises”.
La parola io È un’idea che si fa strada a poco a poco Nel bambino suona dolce come un’eco È una spinta per tentare i primi passi Verso un’intima certezza di sé stessi La parola io Con il tempo assume un tono più preciso Qualche volta rischia di esser fastidioso Ma è anche il segno di una logica infantile È un peccato ricorrente ma veniale Io, io, io Ancora io Ma il vizio dell’adolescente Non si cancella con l’età E negli adulti stranamente Diventa più allarmante e cresce La parola io È uno strano grido Che nasconde invano La paura di non essere nessuno È un bisogno esagerato E un po’ morboso È l’immagine struggente del Narciso Io, io, io E ancora io Io che non sono nato Per restare per sempre confuso nell’anonimato Io mi faccio avanti Non sopporto l’idea di sentirmi un numero fra tanti Ogni giorno mi espando Io posso essere il centro del mondo Io sono sempre presente Son disposto a qualsiasi bassezza per sentirmi importante Devo fare presto Esaltato da questa mania di affermarmi a ogni costo Mi inflaziono, mi svendo Io voglio essere il centro del mondo Io non rispetto nessuno Se mi serve posso anche far finta di essere buono Devo dominare Sono un essere senza ideali assetato di potere Sono io che comando Io devo essere il centro del mondo Io vanitoso, presuntuoso Esibizionista, borioso, tronfio Io superbo, megalomane, sbruffone Avido e invadente Disgustoso, arrogante, prepotente Io, soltanto io Ovunque io La parola io Questo dolce monosillabo innocente È fatale che diventi dilagante Nella logica del mondo occidentale Forse è l’ultimo peccato originale Io
Devo ringraziare il Maestro Franco Battiato per aver colto, tra i suoi fiori, questo meraviglioso brano di Giorgio Gaber, un autore che, ammetto, merita da parte mia un ascolto più approfondito di quanto abbia fatto fino a oggi.
Il testo è un manifesto: questa canzone andrebbe non solo studiata nelle scuole, ma tenuta presente in ogni casa, in ogni luogo pubblico, in ogni studio medico (specie in quelli degli psicologi), in ogni mente.
Non aggiungerò altre descrizioni alla parola “io”: Gaber lo ha fatto in modo magistrale. Resta solo in me l’amara consapevolezza, visto il periodo attuale, che rischiamo di estinguerci, poiché:
“Questo dolce monosillabo innocente È purtroppo divenuto dilagante Nella logica del mondo occidentale.”
Profughi dell’hinterland milanese si stanno dirigendo a piedi verso Genova. Da Cinisello Balsamo occorrono 44 ore di cammino, 44 terribili ore in cui questa povera gente dovrà affrontare le devastazioni del capoluogo lombardo: cecchini, cumuli di macerie che bloccano le strade, incendi, sciacalli e predatori. Sembra incredibile, per chi ha vissuto in una condizione di tranquillità, dover ora sopportare gli orrori della guerra.
Le comunità hanno smesso di resistere e la paura di essere mandati al fronte come carne da macello è ormai comune, soprattutto tra i più giovani. Qualche anno fa, all’inizio del conflitto, al primo richiamo dell’“eroico patriota”, molti erano entusiasti di partecipare a quella che doveva essere l’azione che avrebbe reso grande l’Europa e il nostro Paese. Ma sono bastati pochi mesi perché in tanti si rendessero conto che, militarmente, siamo scarsi. I nostri equipaggiamenti e le nostre armi sono bazzecole, pinzillacchere rispetto a quelle dei nostri nemici, che continuano a schiacciarci e a deriderci in tutti i modi, in tutti i luoghi e in tutti i laghi. I bei ideali di patria, su cui i media continuano a bombardarci, ormai non se li fila più nessuno. Il popolo è affranto e, soprattutto, ha fame. Il gruppo, una volta superata la città, dovrà avanzare verso la Pianura Padana, una vasta zona infestata da pericoli di ogni tipo. Un’area con poca vegetazione, che rende questi disperati facili bersagli per i bombardieri. Non sarà semplice superare già i primi ostacoli: evitare le mine antiuomo disseminate nel comune di Landriano, i cecchini di Valera Fratta, i banditi di Bissone, per poi affrontare il confine tra Lombardia ed Emilia-Romagna. Affrontare poi l’Appennino, specie in questa stagione, è un’impresa ardua. I sentieri sono disseminati di cadaveri spogliati di tutto: degli oggetti che erano riusciti a portare con sé, dei loro vestiti, perfino della loro carne, presa d’assalto dai topi. Nella Seconda guerra mondiale si poteva almeno trovare aiuto nei partigiani rifugiati sui monti, ma in questo conflitto, data la supremazia militare degli avversari, è stato impossibile organizzare qualsiasi forma di resistenza. Se qualcuno del gruppo riuscirà ad arrivare alla costa, dovrà cercare lo scafista con cui, a caro prezzo, aveva concordato il viaggio su qualche bagnarola di fortuna. Il tutto senza farsi beccare dalla polizia o dai militari: per i giovani il rischio è la condanna per diserzione; per tutti, bambini e adulti inclusi, c’è l’accusa di tradimento della patria. Rischiano di finire in prigioni affollatissime, dove le condizioni di vita sono disumane e le punizioni all’ordine del giorno. Nessuna visita da parte dei parenti, nessuna risposta da parte dello Stato per avere notizie di loro. Molti, semplicemente, spariscono nelle gattabuie. Per sempre.
Gaza Bay sarebbe un luogo ideale in cui vivere. Non troppo lontano dall’Europa insanguinata, l’ex nazione che un tempo si chiamava Palestina sta vivendo una fioritura di resort di lusso. Casinò, hotel sfarzosi, spiagge dorate: un paradiso per i milionari. Per quelli che si sono arricchiti con il mercato delle armi, con gli investimenti immobiliari. Un turismo d’élite, servito dai poveri sopravvissuti, quelli che hanno rinunciato a qualsiasi pretesa di appartenenza alla loro terra, alla terra dei loro avi. Ma raggiungere Gaza è impossibile: serve troppo denaro, e gli accordi tra il nostro governo, quello israeliano e quello statunitense non consentono l’ingresso ai profughi italiani. Alcuni ci hanno provato, spinti dalla disperazione. Alcuni sono riusciti ad attraversare il Mediterraneo fino alla Libia. La maggior parte è stata catturata e imprigionata nei centri di detenzione, quei luoghi infernali dove le guardie si divertono a torturare i prigionieri. Nessuno di loro è sopravvissuto. Chi non è morto nelle prigioni ha trovato la propria fine nel deserto. I nostri profughi, se saranno fortunati, arriveranno a Genova, per poi dirigersi in Sardegna. Se la Dea bendata veglierà su di loro, eviteranno di morire in mare o di essere intercettati dalla guardia costiera. Da lì, dovranno tentare di raggiungere le Baleari, dove ancora si trova qualche porto accessibile, per poi cercare altre imbarcazioni dirette verso l’Algeria. Poi continuare a piedi, attraverso il Sahara, fino alla Mauritania.
Quanti di loro ce la faranno? Le donne incinte? I bambini? I più deboli? I vecchi?
È davvero terribile dover lasciare la propria casa, anche se ridotta a un mucchio di macerie. Nonostante i pericoli, il rischio altissimo di morire, questo gruppo ha deciso di partire. Perché ormai, in Italia, anche la più flebile speranza di sopravvivenza si è spenta. Una volta in Mauritania, arriveranno nella terra promessa: il Senegal.
Se qualcuno riuscirà ad arrivarci, dovrà accontentarsi di qualsiasi lavoro pur di campare. Dovrà affrontare il razzismo verso i bianchi europei. Dovrà vivere senza cittadinanza, senza diritti. Ma almeno, sarà ancora vivo.
Da tempo, Lapi Dario se ne stava rintanato in casa. Aveva persino smesso di frequentare la sua fidanzata, una ragazza meticolosa di nome Parsi Monia. Il oro amore era nato su un’app di incontri e finito in un app di scontri con lei che, dopo una lunga frequentazione, gli aveva detto: “Mi dispiace, ma ti vedo più come un amico.” Dario non l’aveva presa bene. “Il maschio moderno è in crisi, però non lo vuole ammettere,” gli ripeteva costantemente sua madre, stufa di averlo tra i piedi. E aggiungeva, di tanto in tanto: “A tutto c’è rimedio, tranne che alla morte.” Così, un giorno, anche solo per non sentirla più, Dario decise di andare da uno psicologo. Si affidò a uno studio dall’apparenza dinamica, chiamato Forever Jung. “La psicoanalisi junghiana è un tipo di psicoterapia analitica che esplora l’inconscio attraverso concetti fondamentali come l’inconscio collettivo, la sincronicità e gli archetipi. Questo approccio si concentra sulla crescita personale e sull’individuazione, ossia il processo di realizzazione del proprio potenziale unico.” Gli spiegò la dottoressa Franca Mente, che a un primo sguardo gli era parsa schietta, ma in cui notò presto qualcosa di poco chiaro. La psicologa esordì mostrandogli il panorama dalla finestra del suo studio: “Qui una volta era tutta campagna… Oggi come oggi, non ti regala niente nessuno… Se non ti ama, non ti merita…” E proseguì con una raffica di luoghi comuni che fecero infuriare Dario. “Non esistono solo il bianco e il nero, ci sono tante sfumature di grigio!” sbottò, uscendo dallo studio e sbattendo la porta. La psicologa lo rincorse, dicendogli: “La mia voleva essere solo una critica costruttiva!” Poi chiuse la porta, sospirando tra sé e sé: “I giovani di oggi non hanno più rispetto per niente.”
Al cuor non si comanda. Dopo aver buttato 100 euro nel cesso con la seduta, Dario si rese conto che non poteva smorzare i suoi sentimenti con un semplice click. Mentre camminava, ripensava con rabbia alle tante frasi fatte sentite in quello studio. Una, però, gli ronzava in testa più delle altre: “Il nuoto è lo sport più completo.” Fu allora che prese una decisione: Domani mi iscrivo in piscina e da lunedì, cascasse il mondo, mi metto a dieta.
L’importante è amarsi, pensò, il resto vien da sé.
Dario riprese a camminare in un bel pomeriggio di aprile. Alzò lo sguardo verso il cielo e pensò: «Una rondine non fa primavera, ma tante rondini sì.» Mentre passeggiava, riaffioravano nella sua mente i ricordi dell’infanzia, quando Sandro Pertini era considerato il miglior Presidente che l’Italia avesse mai avuto. Più avanti, vide alcuni ragazzi discutere animatamente dei massimi sistemi e concluse che, sebbene i bambini di oggi siano più svegli, senza una calcolatrice non sanno nemmeno fare 2 + 2. Per strada, Dario notò un vecchietto che imprecava contro una macchina, colpevole di non essersi fermata per fargli attraversare sulle strisce pedonali. «Non c’è più rispetto per gli anziani!» esclamava l’uomo. Dario, rivolgendosi a lui, intervenne: «Vede, signore, il problema è che il maschio moderno è in crisi… però non lo vuole ammettere.»Il vecchietto replicò: «Una volta si poteva uscire tranquilli la sera, si poteva lasciare la porta di casa aperta, il pane aveva un altro sapore, il calcio era più genuino… adesso, con tutti questi milioni…» Dario interruppe l’elenco di quel povero uomo, sorridendogli e aggiungendo: «Stia sereno, non si è mai troppo vecchi.» Mentre si allontanava, sentiva ancora il vecchietto sproloquiare sui giovani d’oggi, che non sono più quelli di una volta, che non conoscono la fame, che sono irresponsabili e via dicendo, nel suo infinito repertorio di lamentele. Ancora era presto per tornare a casa, e Dario non aveva voglia di incorrere nelle solite ramanzine di sua madre per aver pranzato fuori – sapeva già bene che, una volta rientrato, lei avrebbe detto: «Come si mangia a casa propria non si mangia da nessuna parte!» Così decise di andare a trovare un amico, quasi come se cercasse un tesoro. D’altronde, i veri amici sono quelli d’infanzia – anche se, a dirla tutta, il cane è il miglior amico dell’uomo. Mentre si accingeva a salire le scale della casa del suo amico Franco Forte, udì la voce di sua madre, una donna robusta di origine tedesca, che rimproverava il giovane, dicendo che i ragazzi d’oggi non conoscono il valore del denaro. Dario si fermò un attimo, sorrise e pensò: «Tutto il mondo è paese.»