Circle game

We’re captive on the carousel of time.
We can’t return, we can only look behind
From where we came

Aveva passato un bel po’ di primavere eppure puntualmente continuava a perdersi un paio di giorni al mese nei suoi giorni blu, giorni in cui si stendeva sul divano, metteva qualche vecchio disco di Joni Mitchell e lasciava che le lacrime le scorressero libere sul viso. “Ma questa adolescenza non scompare mai?” pensava fra sé e sé rimpiangendo il pacchetto di patatine finite e la totale mancanza di cioccolata nella sua credenza e di un uomo nella sua vita. Poteva rimediare a tutto, spesso se lo ripeteva che dipendeva da lei, che doveva farsi meno problemi e rimettersi in discussione. Era tutto facile nei suoi momenti lucidi in cui sentiva perfino di avere un certo potere, momenti in cui riusciva anche a sentirsi bella, poi tutto tornava ad affogare nel blu e nei biscotti, nel dolce e nel salato che non riuscivano mai a colmare il vuoto che sentiva dentro.
Cominciava a sentirsi stanca anche della sua razionalità e di tutto il buon senso che nel tempo gli amici e i familiari cercavano di rifilarle. “Ma che vuoi che sia? Pensa alla salute! Dovresti essere contenta di quello che hai. Smettila di lamentarti, quali problemi avrai mai tu?”.
Neanche per due giorni al mese ci si poteva lamentare lasciando libera la propria tristezza, la propria rabbia? _Si diceva_ Perché far finta che tutto vada bene se dentro ci si sente incrinati?

“Sto male”
“Vai da uno psicologo”
“Ci sono stata, mi ha mollato pure lui”
“Medita”
“Non ne ho voglia”
“Allora lamentati senza rompere le scatole agli altri”
“Guarda che sei te che mi hai chiesto come stavo”  … era meglio far finta di niente mi sa.
Tutto si ripeteva, le solite risposte alle solite domande mai poste. Cazzo, pensava, sono solo due giorni al mese in cui mi spoglio dei miei filtri e sono totalmente sincera con me stessa … non posso neanche essere libera di sentirmi così?
In fondo di questa sua mestizia capiva che poteva esserne quasi orgogliosa. Joni Mitchell era sempre un buon ascolto, in quel blu che le colorava l’anima ritrovava una parte di sé capace ancora del dolore delle aspettative infrante, un dolore che toccava e che, una volta terminate le lacrime, decideva di curare. Allora tornava a desiderare, a vivere giorni gioiosi e altri giorni di sogni inquinati da surrogati, si confondeva e poi tornava sul suo divano, metteva su un disco di Joni Mitchell e tornava a leccarsi le dita salate di patatine e delle sue lacrime.

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